La consacrazione arriva con Il postino suona sempre due volte (1946), il capolavoro noir di Tay Garnett. Sin da quando entra in scena – asciugamano in testa, gambe nude, rossetto vistoso, unghie laccate – Cora rivela tutto il calamitoso magnetismo della sua presenza.
Orio Caldiron
Orio Caldiron
Saggista e critico, è uno dei maggiori studiosi italiani di cinema, autore di centinaia di scritti in cui la straordinaria competenza si salda alla passione cinefila in un linguaggio immediato e colloquiale. Ha dedicato mostre e programmi televisivi a personalità e momenti del cinema italiano. Docente universitario di lungo corso, direttore di prestigiose collane editoriali, è stato Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
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Considerato oggi tra gli autori più originali dell’intera storia del cinema, uno dei pochi che dai lontani segreti del muto sia arrivato alle inventive sorprese del cinema moderno. Non solo un grande narratore di storie, ma un artista affacciato con trepidazione sul destino dell’uomo e la sua inguaribile fragilità.
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Nel cinema americano come nella serialità televisiva è fondamentale il rapporto con la realtà che non esclude naturalmente lo spettacolo, l’affabulazione. «Un albero è un albero», diceva Vidor, «che bisogno c’è di ricorrere ad un albero finto?».
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Strizzata in bikini, jeans, impermeabili che sembrano scoppiarle addosso, cerca in tutti e tre i film di essere un’attrice e qualche volta ci riesce, anche se nell’ultimo il confronto con le famose cascate è particolarmente impegnativo.
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Sorriso ironico sulle labbra, battuta folgorante, guarda l’interlocutore con l’aria di prenderlo in giro, anche quando, con la sua voce grave, tra un acuto e un bisbiglio, sembra dire cose serissime.
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Sin dai primi film del dopoguerra il suo tratto distintivo sembra essere il richiamo all’attualità. Insieme alla scelta di muoversi nell’immediatezza, piazzando la macchina da presa tra le case bombardate, nelle balere in cui gli americani ballano con le signorine, nella borgata in cui manca l’acqua e tutto.
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Nell’anemico panorama del cinema italiano di fine anni ottanta è un debutto che dice molte cose sull’autore, sull’amore per le sfide più impegnative, sulla passione per il cinema-spettacolo che cresce nel rapporto con un produttore importante, sull’interesse per l’artigianato cinematografico e i generi forti in grado di rapportarsi al pubblico in sala.
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Nessun altro regista italiano ha come lui la vocazione del testimone, di chi ha vissuto al presente la storia del cinema, ma spesso anche della società, e può dire io c’ero. Nessuno più di Carlo Lizzani.
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Non è da tutti debuttare a ventisei anni con un capolavoro che continua ancora oggi a fare discutere. La stessa scelta di prendersela con uno degli uomini più famosi e più potenti del mondo si rivela una scorciatoia verso la celebrità, con cui il favoloso personaggio è già da tempo in buoni rapporti.
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Il primo successo l’ottiene in tv con il serial Peyton Place. S’innamora del cinquantenne Frank Sinatra che sposa nel ’66 e lascia pochi mesi dopo, prima di seguire i Beatles nel loro ritiro spirituale in India alla corte del Maharishi.