Nel cambiare dei ruoli resta sempre la ragazza borghese in bilico tra integrazione e rifiuto, ingenuità e malizia, a cui è difficile attribuire un passato
Orio Caldiron
Orio Caldiron
Saggista e critico, è uno dei maggiori studiosi italiani di cinema, autore di centinaia di scritti in cui la straordinaria competenza si salda alla passione cinefila in un linguaggio immediato e colloquiale. Ha dedicato mostre e programmi televisivi a personalità e momenti del cinema italiano. Docente universitario di lungo corso, direttore di prestigiose collane editoriali, è stato Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
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I suoi rapporti con Hollywood ripetono sempre lo stesso copione che va dall’entusiasmo alla delusione. Non fa eccezione neppure il film tratto da Il vecchio e il mare, il racconto lungo sul pescatore cubano che, dopo ottantaquattro giorni di pesca infruttuosa, riesce in un’epica battaglia solitaria a catturare il più grosso pesce della sua vita, per vederselo divorare dagli squali.
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Nessuna più di lei incarna in questo periodo l’icona del divismo in cui l’apparenza sostituisce la realtà, l’artificio sta al posto dell’emozione:
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Nel suo intervento lo stesso regista – che si mette del pubblico, in difesa dei trentasette milioni di spettatori che hanno visto i suoi film, tanti per un paese di quarantasei milioni di abitanti – rifiuta il giudizio sommario, respinge l’accusa di facile, deteriore sentimentalismo.
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Il volto dai tratti irregolari, il corpo sottile, i modi da ragazza borghese, ha solo quattordici anni quando un regista la ferma per la strada chiedendole se vuole fare del cinema.
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Il giallo vince? Il giallo vince e perde. Sì, perché la sua trionfante onnipresenza al cinema, nei fumetti, in televisione, non solo non attenua la forbice tra cinema d’autore e cinema di genere, arte e confezione, pratiche alte e pratiche basse, ma sembra in qualche misura esasperarla sottolineando le contrapposizioni e le incomunicabilità.
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I vasti stabilimenti cinematografici di Cinecittà divennero il nuovo Palatino. Roma stessa divenne un gigantesco set cinematografico da mozzare il respiro e accolse un numero infinito di divinità dello schermo proveniente dai più vari domini, con seguiti di domestici e sicofanti, che volevano creare il loro nuovo Mercurio: il paparazzo
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monite, sullo schermo il mito di Philip Marlowe gli sopravvive grazie a Humphrey Bogart, l’indimenticabile private eye di Il grande sonno (1946), il cult movie di Howard Hawks che sacrifica il virtuosismo narrativo del romanzo per privilegiare il magnetismo degli attori e le atmosfere misteriose della metropoli.
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La sua firma coincide per oltre trent’anni con il marchio della Rinascente, il grande magazzino che scandisce l’avvento della società di massa. Nell’ottantina di manifesti dedicati al paradiso delle signore compare spesso un’unica figura femminile, la protagonista di una sorta di fantasmagorica cosmogonia in bilico tra simbolo e merce.
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Il perfezionismo maniacale che contrassegna la futura attività cinematografica e teatrale del grande milanese fa già ammattire i tecnici. Sul set arriva puntualissimo, prima di tutti, sempre scontento e intransigente, pretende il più assoluto realismo nei particolari anche in quelli più insignificanti.