Clint Eastwood, l’ultimo dei classici

by Orio Caldiron

Nessun altro autore statunitense ha saputo più e meglio di Clint Eastwood rievocare nella sua quarantina di regie oltre un secolo e mezzo di storia americana, dall’epos della frontiera di Lo straniero senza nome (1973) alla guerra di secessione  di Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), dalla seconda guerra mondiale di Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, entrambi del 2006, dall’assassinio di Kennedy citato in Un mondo perfetto (1993) all’era Reagan celebrata, con la sua nostalgia per la guerra fredda e la corsa agli armamenti sempre più tecnologicamente sofisticati, in FirefoxVolpe di fuoco (1982).

Senza contare i ritratti dall’interno del cantante country di Honkytonk Man (1982) e del musicista jazz di Bird (1988), altrettanti viaggi dentro l’America profonda, le voci, i suoni, i ritmi di una straziante cognizione del dolore.

Quando oggi lo si considera da più parti un’istituzione, l’ultimo dei classici, o addirittura l’icona americana per eccellenza – in grado di fare un film dietro l’altro, con un progetto in cantiere mentre è appena uscito il titolo precedente – si trascura il lungo apprendistato di attore televisivo e cinematografico che precede la sua affermazione divistica, ma anche il percorso tutt’altro che scontato e lineare della sua carriera di regista.

Sbarcato a Roma nell’aprile 1964 con una valigia piena di pistole, cinturoni, stivali, jeans spiegazzati, scatole di cigarillos, si scontra subito con Sergio Leone sui dialoghi del film che gli sembrano ridondanti e riesce a farli ridurre all’osso. Sul set di Almerìa -una piccola Babele con copioni in italiano, inglese, tedesco, e spagnolo, ma pochissime persone in grado di parlare decentemente inglese -il professionismo maniacale e l’eccitazione infantile del regista conquistano l’attore che lo trova irresistibile quando, con occhialini e cappello da cowboy, cerca di impersonarlo per spiegargli una scena. La troupe adotta lo spilungone con l’andatura da gatto che, rannicchiato dentro una Cinquecento, riesce a dormire tra un ciak e l’altro, svegliandosi solo per ammazzare due o tre banditi con l’energia e la velocità necessarie.

LA TRILOGIA DEL DOLLARO

Il clamoroso successo europeo di Per un pugno di dollari (1964) – e subito dopo di Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) gli altri capitoli della leoniana “trilogia del dollaro” – con cui si avvia la lunga, ridondante fioritura del western autartico  rappresenta la svolta fondamentale nella carriera di Clint che a trent’anni scalpita nei panni di Rowdy Yates, il deuteragonista di Rawhide, la serie televisiva a cui deve l’inizio della sua notorietà. Nel cinema, da quando è nella scuderia di giovani promesse della Universal, non è andato oltre le fugaci apparizioni di poche battute. Senza smettere mai di aggirarsi negli studios e di interessarsi all’intero processo produttivo, cercando di rubare i segreti delle star di passaggio e soprattutto ai cameramen e ai montatori, che incarnano la lezione del grande artigianato hollywoodiano in cui si riconosce. Si ritrovano qui, in questo importante momento della sua formazione, anche le regole non scritte del futuro cineasta, dal coinvolgimento senza risparmio in ogni progetto all’ossessione del controllo che sul set non esclude l’attenzione al lavoro degli attori, senza trascurare la tenace passione per il jazz a cui s’ispira il gusto per le variazioni musicali che attraversa, ora più esplicito ora più sottotraccia, il suo stile registico.

L’INCONTRO CON SIEGEL

L’incontro con Don Siegel per L’uomo dalla cravatta di cuoio (1968) gli consente di voltar pagina e di traghettare il personaggio dello straniero senza nome dello spaghetti-western nello scenario inquietante del thriller metropolitano, nel momento in cui conquista il box-office diventando uno degli attori americani più redditizi a fianco di John Wayne e Paul Newman. Il sodalizio – dopo il flop di La notte brava del soldato Jonathan (1971), un “gotico” spiazzante e beffardo che molti considerano oggi un capolavoro – prosegue con il clamoroso successo planetario di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (1971), destinato a diventare in un polverone di polemiche il film più popolare e controverso dell’attore. Stroncato dai critici del “New York Times” e del “Village Voice” che lo accusano di paranoia filonixoniana se non addirittura di fascismo, il film inaugura la serie di “Dirty Harry”, da Una 44 Magnum per l’Ispettore Callaghan (1973) a Cielo di piombo ispettore Callaghan (1976) fino a Coraggio…fatti ammazzare! (1983), che appare oggi nella sua esasperazione del politicamente scorretto un documento quasi archeologico dell’immaginario di un’epoca. La scomunica ideologica peserà a lungo sui suoi personaggi ma anche sull’attore-autore, più che mai deciso a proseguire comunque per la propria strada senza badare troppo agli umori del pubblico e a quelli della critica.

NASCE LA MALPASO

Solo qualche anno prima aveva fondato una piccola casa di produzione, la Malpaso, che sempre più avrà voce in capitolo nella sua carriera, soprattutto quando sin dall’inizio degli anni settanta si misura con la regia, definendo progressivamente la sua statura professionale e la sua personalità d’autore. Nel frattempo l’attore “legnoso” e “inespressivo”, sbrigativamente identificato con il personaggio del superpoliziotto dai modi brutali, si rivela interprete di rara sottigliezza che si affida alla più rigorosa economia di gesti, sguardi, silenzi, ma anche regista di singolare efficacia che predilige le inquadrature essenziali, il montaggio serrato, la secchezza del racconto. Il successo commerciale dei suoi film più riusciti e l’oculato intervento della sua casa di produzione, che è venuta crescendo prima all’ombra della Universal e poi della Warner, gli consentono di affrontare progetti insoliti e rischiosi anche al di fuori dei territori collaudati del western e del film d’azione, destinati a restare ancora per qualche tempo i suoi scenari d’elezione, in cui più esplicitamente affiora la lezione del cinema classico, sia nella capacità di muoversi con grande disinvoltura e abile accortezza nei segreti degli studios, sia nell’attitudine a andare controcorrente inseguendo ritmi e stili estranei alle tentazioni del modernismo.

IL RITORNO AI CLASSICI

Si dimentica spesso che il rapporto con la tradizione del cinema americano – a cui Clint Eastwood si rifà come attore e come regista prima della consacrazione degli anni novanta che gli assicura l’aureola della classicità – ne fa per parecchio tempo un personaggio che rischia di essere o almeno di apparire fuori moda. Quando l’estroverso istrionismo di Jack Nicholson, Al Pacino, Robert De Niro, domina la scena sembra non esserci posto per uno stile di recitazione che trova il suo modello di riferimento nell’understatement di Gary Cooper e di James Stewart, ormai lontani dalla sensibilità delle nuove generazioni di spettatori. Negli anni dell’affermazione della Nuova Hollywood, che scompagina il sistema dei generi e manda all’aria le strutture narrative, rischia di sembrare anacronistico un regista come Eastwood che riprende l’iconografia e la sintassi dei cineasti classici, dei padri fondatori del racconto cinematografico in cui l’apparente schematismo non nasconde la complessità delle strategie espressive in grado di affrontare le contraddizioni e le zone d’ombra, i nodi irrisolti e i punti di rottura. Si è scomodato spesso John Ford, ma anche Raoul Walsh, Howard Hawks o addirittura David W. Griffith, senza trascurare Anthony Mann, singolare narratore di storie poliziesche e western che per tanti versi gli assomiglia. Ma il rapporto con il classicismo resta più complesso e sfumato di quanto solitamente si creda, collegato alle strategie di una scrittura sempre più consapevole nella sua capacità di riesaminare spregiudicatamente i miti delle origini di un’intera società oltre che della sua leggenda cinematografica.

Nel corso degli anni settanta e ottanta il lavoro sui generi approfondisce il ruolo fantasmatico del cavaliere solitario in bilico tra il mondo dei vivi e il regno dei morti, un’apparizione intermittente che non viene dalle praterie del western storico ma dalla cittadina irreale dipinta di rosso inferno di Lo straniero senza nome (1973). Nel ritmo picaresco di Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976) l’eroe vendicatore passa attraverso un doloroso processo di iniziazione che lo avvicina all’altra faccia della storia americana, quella dei perdenti, dagli indiani ai sudisti, dai vagabondi ai pionieri. Si spinge ancora più in là con Il cavaliere pallido (1985), dove il predicatore-pistolero si staglia sullo scenario della frontiera in bilico tra mito e dissoluzione, dando vita a un film di esterni immersi nella luce in cui lo scenario naturale tra montagne innevate e folti boschi incarna le passioni tempestose degli uomini. Soltanto con Gli spietati (1992) – che segna la definitiva accettazione da parte di Hollywood, fino a allora avara di riconoscimenti nei confronti di un autore appartato e indipendente – chiude i conti con il genere in una rilettura cupa e disillusa, segnata da un senso opprimente di morte. Non è tanto una revisione dell’epica del west quanto un viaggio scarnificato nei sentieri selvaggi di un mondo in cui è impossibile ogni ulteriore rielaborazione mitica. Nello scompaginamento irrimediabile della iconografia tradizionale, nessuno corrisponde all’immagine che dovrebbe avere, gli uomini di legge sono sadici, i pistoleri non sono infallibili, le prostitute non hanno il cuore d’oro.

NEL SEGNO DELL’AMBIGUITÀ

Nel segno dell’ambiguità si apre la grande stagione dei capolavori di un cineasta maturo, stilisticamente rigoroso, ossessionato dal ruolo centrale della visione e dei suoi meccanismi allucinatori. Un mondo perfetto, sconcertante nella sua costruzione a flashback tra la scena iniziale della notte di Halloween e quella finale dell’agonia del fuggiasco, è una ricognizione senza illusioni sul senso di colpa e la perdita dell’innocenza, tra la paternità impossibile dell’evaso nei confronti del bambino in ostaggio e l’apparente indifferenza del ranger incaricato dell’indagine, pieno di dubbi e reticenze. I ponti di Madison County (1995) è un’immersione inconsueta ma trascinante nelle situazioni canoniche del melodramma, dal colpo di fulmine del primo incontro alla difficoltà del rapporto sentimentale di durare nel tempo, fino alla magistrale cerimonia d’addio della fine in auto sotto la pioggia, appena uno sguardo che racchiude in pochi fotogrammi il fuoco di una passione incapace di sottrarsi alle convenzioni sociali.

Un mondo perfetto

Potere assoluto (1997) è un affondo vibrante, chirurgico, nell’immagine del potere e insieme nel potere dell’immagine, che porta in primo piano la corruzione e la violenza insite nel cuore stesso della democrazia americana, vista attraverso il voyeurismo del protagonista, un’altra incarnazione dell’eroe eastwoodiano, destinato a trovare ancora una volta il coraggio di andare fino in fondo tra dubbi e perplessità. Fino a prova contraria (1999) conferma la capacità del regista di fare della corsa contro il tempo di un cinico giornalista per salvare un condannato a morte, forse colpevole forse innocente – e cioè di una situazione tipica del cinema noir – l’occasione privilegiata per dimostrare l’importanza decisiva, nella messinscena come nella vita dei particolari apparentemente insignificanti, mentre si dipana la cronaca di un universo pieno di figurine grottesche e di ammiccanti ambiguità. Mystic River (2003) esalta la fertile creatività del regista alle prese con la tragedia dell’amicizia e della violenza, ancora una volta un dramma famigliare sullo sfondo corale della metropoli, che stringe i protagonisti in un abbraccio mortale. Serrato, livido, sgradevole, è un film che non dà quartiere allo spettatore, costringendolo a rivivere fino in fondo il trauma del male, della sopraffazione vampiresca che attanaglia le vittime insieme ai colpevoli, mentre la città è in festa, tra sventolii di bandiere e incedere di majorette.

DA MYSTIC RIVER A THE MULE

Si potrebbe continuare con Million Dollar Baby (2004), Changeling (2008) Gran Torino (2008), altrettante impietose rivisitazioni del sogno americano che sostituiscono le certezze di un tempo con un senso di vuoto e di smarrimento incolmabili. O anche con Invictus (2009), Hereafter (2010), J. Edgar (2011), Jersey Boys e American Sniper, entrambi del 2014, Sully (2016) e Il corriere-The Mule (2018). Ogni nuovo film del novantenne regista fa discutere e spesso emozionare come al cinema hollywoodiano capita sempre più di rado. Chi rifiuta le sue sconsolate conclusioni deve comunque fare i conti con i personaggi di questo grande narratore, anche quando continuano a dire che non sanno niente, che non c’è niente nel loro cuore. Sbagliano tutto e sanno di farlo, guadagnandosi una qualche paradossale grandezza, mentre l’America amara, amarissima, di Clint Eastwood è un mondo decisamente imperfetto, dove chi guarda è sempre più vulnerabile. Nei suoi occhi al posto della verità si riflette il pozzo profondo della contraddizione, la vertigine dell’ombra.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.