Come la girerebbe Lubitsch?

by Orio Caldiron

Sulla parete del suo ufficio, Billy Wilder ha sempre tenuto bene in vista la scritta «How would Lubitsch?». Nel corso di quarant’anni di cinema, l’autore di Viale del tramonto, Sabrina, A qualcuno piace caldo, si è chiesto come la scena che stava scrivendo l’avrebbe girata il grande regista tedesco che considera il suo maestro, il solo di cui ammette di aver subito l’influenza. Se tra fine anni trenta e inizio quaranta si sono visti più volte nelle rimpatriate della colonia tedesca di Hollywood, Billy l’ha incontrato professionalmente solo quando con Charles Brackett ha scritto per lui L’ottava moglie di Barbablù e Ninotchka, splendidi esempi del “Lubitsch touch”, l’inafferrabile contrassegno dello stile personale che ha sempre messo in difficoltà la critica.

Nel cercare di cogliere il gioco di allusioni e di sottintesi, di elissi e di porte chiuse di cui sono pieni i suoi film, François Truffaut – ammirava il fascino malizioso di Lubitsch fino a considerarlo un vero principe – ha parlato della messinscena lubitschiana come dell’arte di raccontare una storia in modo assolutamente essenziale o, meglio, di cercare il mezzo per non raccontarla del tutto. Se restiamo davanti alle porte delle camere da letto, quando tutto avviene all’interno, è perché saremo noi spettatori a costruire la storia assieme al regista mentre il film scorre sullo schermo. «Il gioco della messinscena non si può fare che in tre: Lubitsch, il film e il pubblico», dice Truffaut. «Le incredibili elissi del racconto funzionano solo perché ci sono le nostre risate che fanno da ponte tra una scena e l’altra. Lubitsch è un gruviera dove ogni buco è geniale».

Se la storia la costruisce il pubblico, allora non c’è più bisogno della sceneggiatura? Al contrario, la sceneggiatura diventa fondamentale, acrobatica performance di alta ingegneria, sapiente previsione di incastri giusti e di ironiche strizzate d’occhio. Almeno a sentire Samson Raphaelson, che dal 1930 al 1947 ha lavorato con Lubitsch a nove film, tra cui Mancia competente, La vedova allegra, Angelo, Il cielo può attendere, considerati altrettanti capolavori: «Lavoravamo sei ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Anche le baruffe, per quanto rumorose, facevano parte del nostro lavoro. Praticavamo una scrittura parlata. Nessuno dei due sapeva scrivere a macchina. Fortunatamente anche Lubitsch era un parlatore, perciò lavoravamo sempre con una segretaria accanto. Fu lui a scrivere alcune delle mie battute migliori, e io a dispensare certi inconfondibili “tocchi di Lubitsch”. Non tenevo certo il punteggio».

Strana coppia quella formata da Lubitsch e da Rafi, dal berlinese che si fa le ossa nella compagnia di Max Reinhardt prima di affermarsi nell’ultimo decennio del muto come regista di fama mondiale e dall’americano di Chicago che disprezza il cinema e si divide tra giornalismo e teatro prima di scrivere Il cantante di jazz, la commedia strappacuore destinata a diventare il primo film sonoro. Se Samson è alto, magro, miope, occhi azzurri e capelli castani, Ernst è poco più di un metro e sessanta, pingue di vita, le mani e i piedi piccoli, l’andatura dinoccolata per via delle gambe arquate. «Ma per me», ricorda Raphaelson, «l’intensità del volto, quegli occhi brillanti, e la sua innata capacità di intuire cosa ci voleva per fare un film gli conferivano dimensioni da gigante». Senza contare il carisma virile, la sua fama di tombeur de femmes.

La principessa delle ostriche e La bambola di carne, entrambi del 1919, sono due piccoli capolavori interpretati dalla vivacissima Ossi Oswalda, la Mary Pickford tedesca. Nel primo l’America di Mister Quaker, il re delle ostriche, è il regno stravagante e opulento dell’eccesso, in cui si moltiplicano le segretarie, i servi, le cameriere, le stanze dell’enorme palazzo-labirinto. Non si contano neppure le fotografie degli uomini in vendita sulle pareti dell’angenzia del sensale di matrimoni, che ricorda la galleria felliniana di Katzone con i loculi delle amanti in orgasmo. Il ritmo si scatena nella carnevalizzazione più assoluta quando durante la festa di nozze impazza il fox-trot, che travolge gli invitati, i valletti, le cameriere, i cuochi come un’epidemia.

La bambola di carne è invece una favola espressionista che ripropone la stilizzazione degli ambienti e dei personaggi tipica del caligarismo. Hilarius, il costruttore di automi vestito come un clown, è specializzato in bambole “life size”, pèronte a acconsentire ai desideri del padrone. La parodia dell’hoffmanniano Spallanzani è esplicita, anche se al posto di Olimpia, la creatura artificiale che canta, balla e seduce da lui costruita, l’imbranato Lancelot si porta via la figlia di Hilarius. Il rovesciamento capovolge anche il finale, per cui la bambola di carne e sangue non conduce romanticamente alla rovina ma alla salvezza, convertendo con astuzia tutta femminile il giovane misogino ai piaceri della vita. Come dire che il solare, edonistico libertinismo di Lubitsch esorcizza il cupo, allucinato irrazionalismo di Hoffmann.

Come sono le donne della grande stagione americana? Mary Pickford, quella vera, gira con lui un solo film ma le basta e avanza: «Gli interessano solo le porte, è il regista delle porte». Senza contare le spensierate commedie dell’età del jazz, in cui Lubitsch dà la scalata alla mecca del cinema, all’inizio degli anni trenta prima del Codice Hays si diverte a mettere in scena un paio di maliziose signore decise a farsi gioco delle convenzioni matrimoniali. In Un’ora d’amore Maurice Chevaliercerca di sottrarsi agli assalti dell’amica della moglie e guarda in macchina per coinvolgerci nel suo dilemma, ma alla fine tutto si risolve nei couplets canterini con Jeanette MacDonald.

Il gioco si fa più pesante – e cioè più leggero, impalpabile, sfuggente – in Partita a quattro, spericolato elogio del ménage à trois, ma anche raffinato, quasi tennistico rimbalzo di battute e situazioni da manuale antimatrimonio. Se il barbaro Gary Cooper è magnetico, il mondano Fredric March è legnoso, mentre Miriam Hopkins è brava a ostentare i suoi trent’anni suonati e il suo lungo passato teatrale, volta a volta svampita e capricciosa, elegante e fatua, tenera e beffarda. Irresistibile come al solito il pubblicitario Edward Everett Horton, che non riesce mai a entrare in area di rigore neppure quando va in camera da letto la prima notte di nozze. Claudette Colbert dà splendidamente le carte in L’ottava moglie di Barbablù, imprimendo al film il ritmo screwball, il solo che riesce a tenere a bada lo smanioso miliardario affetto da shoppingmania anche quando va all’altare. Ingiustamente sottovaluto, Fra le tue braccia è il burlesco congedo del maestro. Jennifer Jones, la figlia dell’idraulico con la mania di riparare le tubature, e Charles Boier, il rifugiato politico cecoslovacco con il tic dell’anticonformismo, sono due “fuori posto” che si incontrano sullo sfondo della iperconvenzionale aristocrazia inglese di campagna. Quando li ritroviamo a New York felicemente sposati, lei ha lasciato perdere l’idraulica e lui scrive gialli di successo, anche per fronteggiare le esigenze della famiglia in crescita. Niente giochi a tre, per favore.        

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