Come nasce una commedia all’italiana?

by Orio Caldiron

Se si tenta di ricostruire come è nata la sceneggiatura di Il segno di Venere (1955), sembra di sprofondare nelle sabbie mobili. Difficile, talvolta impossibile, sapere chi ha fatto che cosa. Il primo spunto risale a Franca Valeri che abbozza con tagliente ironia la storia di due sorelle, una bella e una brutta, alla ricerca della propria identità sentimentale, oroscopi permettendo. Il film dovrebbe dirigerlo Luigi Comencini che spera di sottrarsi alla serialità coatta di Pane, amore e fantasia (1953) e di Pane, amore e gelosia (1954), con una commedia intimista, imperniata sul personaggio Valeri e il suo retrogusto acidulo, decisamente in controtendenza, ma presto abbandona il progetto.

Secondo Risi, che gli succede, il film «è nato un po’ disordinatamente, con una sceneggiatura faticata a cui abbiamo partecipato un po’ tutti. C’era Flaiano, c’era Franca Valeri che ha messo del suo». Mentre Comencini diffida dell’invadenza di Goffredo Lombardo, Risi condivide il modello produttivo della Titanus, che privilegia le scelte del cast, in cui entrano a far parte, oltre a De Sica, Alberto Sordi, Peppino De Filippo, Tina Pica, Virgilio Riento, Maurizio Arena, Raf Vallone, Lina Gennari: «Quella del cast è un’operazione che allora la Titanus faceva spesso e volentieri; il cast alla Grand Hôtel, il meglio del cinema italiano in quel momento. La Titanus era una società di natura un po’ americana. Lombardo era l’unico in fondo che faceva il cinema come si faceva a Hollywood, nel piccolo, naturalmente, delle possibilità italiane».

Nell’estate 1954 Il segno di Venere, persi per strada i vari titoli provvisori da La chiromante a La signorina Cesira, comincia a prendere forma. Almeno sulla carta. Ennio Flaiano, sotto contratto per rielaborare il soggetto e scrivere la sceneggiatura, è già al lavoro. Ma in una lettera del 27 agosto al producer Marcello Girosi chiede più tempo per non compromettere l’originalità del progetto: «Il film è importante, delicatissimo, ci vuol niente a farne una porcheria; mentre con un po’ di pazienza e molto lavoro si può tirar fuori una cosa degna. La novità del personaggio [si riferisce a Cesira], la sua importanza non vanno presi sottogamba. Occorre studiare bene i caratteri, trovare nuove soluzioni, nuovi personaggi. Non so arronzare. Non posso limitarmi a fare delle macchiette».

IL PARADOSSO DELLO STUDIO SYSTEM

Il paradosso dello studio system all’italiana è che, dopo le prime riunioni, gli sceneggiatori non s’incontrano più e ognuno lavora per conto suo. Franca Valeri – secondo la pratica consolidata nell’attività teatrale e radiofonica, oltre che nelle esperienze cinematografiche di poco precedenti – s’impegna soprattutto nella scrittura della sua parte. Edoardo Anton, il versatile giornalista che viene anche lui dal teatro e dalla radio, si occupa della definizione degli altri personaggi. Ma prima o dopo la fase Flaiano? Prima, perché avrebbe integrato, sin dal soggetto, il lavoro di Franca Valeri. E anche dopo, perché con Dino Risi contribuirà probabilmente alla stesura definitiva. Senza contare che un attore come Sordi rielabora sempre i propri personaggi e all’epoca ha già alle spalle uno sceneggiatore di fiducia come Rodolfo Sonego.

Nel passaggio dalla sceneggiatura al film, scompaiono completamente Ninetto, il bambino che Agnese ha avuto un paio d’anni prima da una marinaio sposato, e la zia Nicolina che lo tiene a balia a Salerno senza che la famiglia Tirabassi ne sappia nulla. Scomparso il pupo, che aveva suscitato la reazione traumatica del padre («Che vergogna! Tutta una vita onorata e adesso… anche il figlio della colpa») e la lungimirante rassegnazione della madre («Io, se ti devo dire la verità, quasi sono contenta! Tanto, quella, il guaio, sentivo che me lo combinava. Adesso non ci penso più»), il “guaio” resta ma viene spostato al presente e attribuito al pompiere Bolognini. L’errore giovanile che improvvisamente si materializza e gira per casa avrebbe esposto i fragili meccanismi della vicenda alle intemperanze strappalacrime del melodramma. Cancellata la componente feuillettonistica, il bambino in arrivo rientra nel mito della primavera tipico della commedia, mentre la faccia onesta di Raf Vallone farà il resto.

Non è esagerato vedere nelle vicende della sceneggiatura di Il segno di Venere – che per molti versi rimanda a tanti altri film dell’epoca, da Un americano a Roma (1954) a Piccola posta (1955), da Peccato che sia una canaglia (1954) a La fortuna di essere donna (1955), da Padri e figli (1956) a Il medico e lo stregone (1957) – qualcosa di simile al romanzo di formazione della commedia all’italiana. Un romanzo ingarbugliato e contraddittorio all’insegna del disordine. Ma, «come succede spesso nel cinema, dal disordine nasce una specie di ordine», dice Risi. Il segreto del film sta tutto qui, nel percorso dal «disordine» all’«ordine», a «una specie di ordine». Sta nel passaggio dal cinema comico che non c’è più alla commedia all’italiana che non c’è ancora.

COMICO E COMMEDIA

Il film comico – anarchico, frammentario, trasgressivo – accoglie per primo la sfida del varietà e dell’avanspettacolo, dai quali attinge sketch e battute per affidarle al vivaio sempre in fermento dei fucinatori d’ilarità. Non esita a impadronirsi anche delle nuove forme di teatro da camera, dove esplodono i caustici monologhi con cui si fa conoscere Franca Valeri, implacabile nel cogliere gli umori e i tic di un’affollata galleria di signorine snob, che nei manierismi alla moda esorcizzano l’incombente spauracchio dello zitellaggio. Nell’ardua impresa di far ridere, sembra deciso a non scegliere, tesaurizzando i contributi più diversi, quelli sofisticati della satira ma anche quelli beceri del teatro dialettale, che riesce ogni sera a rinnovare i fasti chiassosi della farsa.

IL SALTO DI QUALITÁ

Se l’obiettivo è la commedia, con la razionalizzazione che comporta, si tratta di guadagnare la prospettiva più ampia e organica della visione d’insieme, di fare insomma il salto di qualità, senza perdere di vista la forza irresistibile del frammento, la sua capacità di folgorazione. Senza buttare a mare il prelievo sul reale del neorealismo, pur assicurandosi l’attitudine ampiamente comunicativa della commedia. Senza rinunciare all’attore solista, stella polare dello schermo comico, ma trovandogli il posto più adatto nello schieramento delle coralità, dove la folla dei caratteristi dà man forte al mattatore. Singolare crocevia del cinema italiano, Il segno di Venere s’imbatte nelle immagini archetipiche di un’epoca, strizza l’occhio all’assalto agli autobus di Ladri di biciclette (1948), al rito della mano morta di Peccato che sia una canaglia, al party esistenzialista di Totò a colori (1952), all’elogio della fotografia di La fortuna di essere donna, alla dettatura della lettera di Miseria e nobiltà (1954), al rendez-vous in questura di Piccola posta, ai giochi di coppia di Poveri ma belli (1956), agli appuntamenti a Piazza Esedra di Risate di gioia (1960), alla Casa del Passeggero che, dopo Risi, anche Fellini ricostruirà in studio per Intervista (1987).

Il fascino di Il segno di Venere sta nella sua capacità di mischiare le carte, di svariare continuamente dal sapore neorealista al cicaleccio dialettale, dalle esibizioni degli interpreti ai soprassalti della vicenda. È una sorta di prova generale, di cantiere aperto. Il passaggio dal comico alla commedia non è ancora avvenuto, è un processo in corso: l’ordine non ha eliminato il disordine, ma ne conserva ancora l’estrosa esuberanza, le tensioni irrisolte, le contraddizioni feconde. Nella struttura a blocchi, si avverte il sapore divisionista del varietà, con i siparietti, l’andare a ruota libera, gli insistiti tormentoni, le brusche sterzate della farsa, le gloriose impennate del guittismo più sfrenato.

FRANCA VALERI E SOPHIA LOREN

Il sottotesto del film punta sull’asimmetria della coppia Valeri-Loren (in cui si intravedono le silhouettes maliziose e trasgressive di Stanlio e Ollio), ma il punto di coagulo sembra essere la spregiudicata cattiveria di Risi, il suo sguardo refrattario, l’esibita mancanza di pietas. Si sintonizza sul costume che cambia, in bilico tra vieto tradizionalismo e incipiente modernizzazione, un occhio alle ossessioni maschiliste della tribù italica e l’altro alle contraddizioni della irrequietezza femminile, in un gioco di scena e fuori scena, tra rimozione e svelamento, che sarà di lì a poco il riconoscibile contrassegno delle sue commedie amare. Sempre attento ai segnali della presse du coeur, dai rotocalchi ai fotoromanzi, alle canzoni in voga e ai tenori di ieri, alla radio che sta per essere soppiantata dalla tv.

Se il 1954 è l’anno zero della televisione italiana, il cinema comico aveva da tempo firmato un accordo di reciprocità con la radio, il medium più popolare del periodo. Le sussiegose signorine di Franca Valeri prima di passare al cinema e alla tv, avevano debuttato alla radio. Edoardo Anton si divideva, o si moltiplicava, tra giornalismo e teatro, ma da tempo immemorabile era attivo soprattutto alla radio. Alessio Spano, il poeta cialtrone di “Il canto dell’allodola”, non esita a accompagnare il direttore della Rai in una trasferta a Ladispoli tanto peregrina quanto immaginaria. Se alziamo l’audio e spegniamo il video, Il segno di Venere non è più un film ma un programma radiofonico. Commedia? Radiogramma? Varietà? Nelle strategie mediologiche dei lavori in corso, una specie di Frankenstein che, con gli apporti più diversi, sta dando vita a un nuovo genere.


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