«Elio Pandolfi mi raccontava un sacco di pettegolezzi per poi dire: “questa però non la mettere nel libro”»: intervista a Caterina Taricano, autrice di un film e una monografia sul poliedrico genio dello spettacolo italiano

by Gabriella Longo


L’immancabile stola (rossa, per l’occasione) attorno al collo, una parete di quadri alle spalle, il cuscino con la stampa di un gatto di fianco (perché si definisce “gattaro”, proprio come l’amica Anna Magnani). Ogni tanto, da uno scaffale o da un cassetto, tira fuori la fotografia di una sua conoscenza e qualche curiosità che la riguarda. Elio Pandolfi apre le porte di casa sua a chiunque abbia voglia di ascoltare le mille e una storia di spettacolo e costume italiano che ha inizio negli anni Trenta. Seduto sul divano del suo appartamento romano, munito di innato istrionismo, simpatia da vendere e una memoria di ferro, racconta la sua lunga vita che è un crossover di cinema, teatro, televisione, operetta, radio e doppiaggio nel documentario scritto e diretto da Caterina Taricano e Claudio De Pasqualis: A qualcuno piacerà. Storia e storie di Elio Pandolfi (2016).

Classe 1926, orgogliosamente romano, nel parco dei ricordi di questo irregolare dello spettacolo italiano non esiste palcoscenico che la sua voce non abbia calcato. Il suo nastro si riavvolge e arriva a contenere i più minuti dettagli sulla sua infanzia. Inizia da giovanissimo, già dai tempi della scuola, dove si prestava all’interpretazione di “Lili Marleen” per una platea di compagni.

Elio aveva un padre custode dell’Istituto di ragioneria Gioberti di Roma, un padre “amatissimo” che aveva però dovuto convincere del suo talento, una sorella che lo faceva imbucare alle proiezioni, una madre che gli ha trasmesso l’amore per l’Opera e una nonna che gli diceva che al massimo avrebbe cantato all’Opera Pia. Poi un sacco di amici illustri per i quali aveva sempre una parola commossa: da Luchino Visconti, che lo faceva esibire nel salotto di casa sua sulla Salaria a Federico Fellini che lo chiamava affettuosamente “Pandolfino”. Il grande pubblico lo ricorda per i varietà come Studio 1, accanto a Mina, o per il sodalizio artistico con Antonella Steni, con la quale al Teatro Parioli di Roma aveva portato alla ribalta lo spettacolo di satira politica e di costume, Scanzonatissimo ’63. Con tutte le tensioni e i problemi di censura nell’Italia di quegli anni, che saltano fuori fra un aneddoto e un altro. Non si contano poi gli attori e i personaggi ai quali ha prestato il suo inconfondibile timbro. Tutte le voci dei giornalisti alla conferenza stampa di Anita Ekberg ne La dolce vita? Sono Elio Pandolfi. L’avido Boss Hogg di Hazzard? Elio Pandolfi. Le Tont del disneyano La bella e la bestia? Ancora lui. Una duttilità eccezionale, che non giustifica la malsana abitudine del cinema di assegnargli ruoli da “eunuco”. Ma insomma, la sua rivincita se la sarebbe presa facendo il verso a Gian Maria Volontè in Per qualche dollaro in meno (parodia dei western di Leone): lì altro che effeminato, “ero molto macho con la mia abbronzatura e la mia barba lunga”. Alla “dolce vita” italiana, preferiva la compagnia dei suoi amici, quelli dell’Accademia D’arte Drammatica Silvio D’Amico (dove di diploma nel ’45), come Bice Valori, Nino Manfredi, Rossella Falk, Paolo Panelli, ai quali spesso si aggiungeva anche Lina Wertmüller e moltissimi altri, perché non c’era personaggio dello spettacolo che  Elio Pandolfi non conoscesse e di cui non sapesse.

Insomma, si deduce facilmente che la sua non è una semplice biografia. E quasi come avesse intuito che la sua vita sarebbe stata tanto eccezionale  da non poter essere riassunta, Elio Pandolfi aveva acquistato una Paillard Bolex con la quale aveva iniziato a riprendere praticamente qualsiasi esperienza dentro e fuori le luci della sua affollatissima ribalta. Molti di questi filmati giungono interpolati a quelli di repertorio proprio nel documentario che Caterina Taricano, giornalista, saggista, regista, sceneggiatrice, direttrice della rivista dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino “Mondo Niovo” ha raccontato a Bonculture:

Elio Pandolfi aveva un archivio personale sterminato, oltre ad essere una memoria storica egli stesso…

È vero, Elio amava girare, filmare il “dietro le quinte” di ciò che faceva,  documentare il suo lavoro. Andandolo a trovare ci siamo accorti di quanto materiale avesse accumulato negli anni, fra cui moltissimi piccoli filmati amatoriali. Ad esempio Ostia Parade (1956), ovvero il resoconto di una semplice giornata al mare passata con gli amici di sempre. Che poi erano Bice Valori, Paolo Panelli, Silvana Pampanini, Lina Wertmuller, Marcello Mastroianni… Oppure, sempre fra i suoi film amatoriali, ce n’era uno che aveva girato nella sua vecchia scuola fingendo fosse un monastero abitato da suore (Ombre, 1955). E lì lui interpretava da solo tutte le parti. Insomma, era un creativo a 360 gradi e in questo era molto avanti.

Ricordiamo che, nel 2018, ad ampliamento del documentario, arriva anche la monografia Che spettacolo! Elio Pandolfi, edita da Gremese. Com’è stato misurarsi con la quantità di storie messe a disposizione da Elio per entrambi i progetti?

Chiaramente abbiamo dovuto fare delle scelte. Innanzi tutto il libro nasce proprio per colmare il desiderio di dare spazio a tutto ciò che nel documentario non c’era stato modo d’inserire, anche se ci sarebbe ancora spazio per tantissimo altro…C’è poi da dire che si faceva una gran fatica a tenere il suo ritmo. Elio era un fiume in piena, aveva così tanto da raccontare che apriva mille parentesi, faceva centinaia di digressioni. Non diceva mai di non ad un’intervista. Davanti ai microfoni di Hollywood Party poi – programma di Rai Radio 3 di cui è stato assiduo collaboratore e dove, peraltro, noi lo abbiamo conosciuto- non si fermava un secondo. Il segreto, però, era essere attenti, assecondare la sua logica perché anche se poteva apparire depistante in un primo momento, aveva il suo senso e arrivava sempre al punto. Quindi, lavorare al documentario prima e al libro poi, ha significato nuotare in questo mare di cose che gli appartenevano. Pensa che una volta gli avevamo chiesto dove fossero finiti gli originali di alcuni filmati. E lì lui ci ha candidamente risposto: “li ho buttati mentre svuotavo la cantina!”.

Davvero una miniera di storie, che fra l’altro, spesso e volentieri, si sono intrecciate con la la grande Storia d’Italia e di Roma.

Sì, ad esempio la Roma della guerra e dell’embargo fanno capolino nell’aneddoto sulla proiezione privata organizzata da Vittorio Mussolini. Al Capranica davano Ninotchka con Greta Garbo e l’evento era dedicato esclusivamente agli alti ranghi del fascismo. Elio riesce ad intrufolarcisi grazie alla sorella che all’epoca lavorava come cassiera del cinema e vede il film praticamente in compagnia dei gerarchi.

Sempre un po’ “spiando”, aveva visto La cena delle beffe, la prima pellicola italiana contenente un nudo. E sul seno di Clara Calamai ebbe a dire che, insomma, non c’era granché di cui rimanere piacevolmente scandalizzati.

Il film su Elio Pandolfi arrivava dopo Più o meno per Nespolo (2009) ed è stato seguito dal più recente Siamo in un film di Alberto Sordi? (2020). Ma lei è anche autrice di una biografia su Giuliano Montaldo (Un marziano genovese a Roma, Felici Editore, 2013) e di un volume su Giorgio Arlorio (Viaggi non organizzati. La vita e il cinema di Giorgio Arlorio, CSC e Iacobelli Editore, 2018). Insomma, è chiaro che abbia scelto l’attività documentale come strumento di trasmissione di queste memorie eccezionali.

Sicuramente nella mia attività c’è sempre l’intento di setacciare alla ricerca della polvere d’oro, un po’ come nei western, salvare il più possibile le cose dall’oblio. Il cinema ha già di per sé l’enorme capacità di fermare il tempo. E nel caso di Elio Pandolfi questo mezzo espressivo ha permesso di non perdere tutte quelle storie che c’erano dietro le quinte del mondo dello spettacolo che lui ha frequentato e di cui è stato un grande custode. La cosa bella di Elio Pandolfi è proprio questa: ha partecipato alla sua storia e a quella di quegli anni, ha raccontato se stesso e lo spettacolo italiano. È una caratteristica che l’ha accompagnato fino all’ultimo periodo, quando non era più così in forma. E cioè mantenere vivo questo rapporto con il tempo, come se ogni giorno gli fosse utile per costruirsi quello dopo. Non ha mai smesso di esserci con la stessa intensità di quando si è aperto con noi nella lunga intervista.

Qualcosa che di lui ricorda con particolare affetto.

Una cosa che faceva quando mi invitava a casa sua per chiacchierare. Succedeva puntualmente ed era alquanto frustrante, tanto che alla fine ho dovuto farci labitudine. Specialmente nel libro, che è molto diverso dal documentario nel senso che è più intimo, anche perché senza telecamera, era meno “attore”, mi raccontava un sacco di storie private sulle tantissime persone che frequentava, ovviamente molto note. La maggior parte erano pettegolezzi, storie torbide.

Ecco, me le raccontava per poi dirmi: questa però non la mettere nel libro”.

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