Ernest Hemingway, avere non avere

by Orio Caldiron

Non si può dire che Ernest Hemingway sia stato sfortunato con il cinema. La quindicina di titoli ispirati alla sua opera – da Addio alle armi (1932) di Frank Borzage con il malinconico Gary Cooper a Isole nella corrente (1977) di Franklyn J. Schaffner con lo scorbutico George C. Scott, senza trascurare Acque del sud (1944) di Howard Hawks, I gangsters (1946) di Robert Siodmak, Golfo del Messico (1950) di Michael Curtiz, tre indimenticabili capolavori con uno stuolo di attori strepitosi come Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Burt Lancaster, Ava Gardner, John Garfield  – è un primato che nessun altro scrittore americano può contendergli.

Grande appassionato di fotografia – lo conferma la lunga amicizia con Robert Capa e gli innumerevoli scatti, asciutti e incisivi trovati nel fondo personale della J. F. Kennedy Library di Boston – non è un patito del cinema e preferisce cedere i diritti dei suoi libri più che occuparsene come sceneggiatore. I suoi rapporti con Hollywood ripetono sempre lo stesso copione che va dall’entusiasmo alla delusione. Non fa eccezione neppure il film tratto da Il vecchio e il mare, il racconto lungo sul pescatore cubano che, dopo ottantaquattro giorni di pesca infruttuosa, riesce in un’epica battaglia solitaria a catturare il più grosso pesce della sua vita, per vederselo divorare dagli squali. Nel settembre 1952, il testo integrale, una settimana prima di andare in libreria, esce sulla rivista “Life”, vendendo nei primi due giorni cinque milioni e settecentomila copie. La trovata è del produttore Leland Hayward che a dicembre gli propone di realizzarne la versione cinematografica per centocinquantamila dollari.

Lo scrittore, che oltre alla caccia grossa ha un debole per la pesca d’alto mare, mette a disposizione la sua barca “Pilar”, mentre la quarta moglie Mary a bordo della “The Kid” fa la spola tra la terraferma e la troupe che lavora con i pescatori. Se i primi sopralluoghi sono cominciati a Cojimar, si va poi a girare a Cabo Blanco in Perù. Sono giorni felici per Ernest che fin dal mattino presto partecipa alle battute di pesca. Ma il grosso pesce che il vecchio cubano deve arpionare non si riesce a prenderlo. Si finirà col pagare duecentocinquantamila dollari per utilizzare il filmato della cattura di un pesce enorme che nel film si vede soltanto nel mare, mentre alla barca del protagonista è attaccato un pupazzo di gomma.

Santiago avrebbe dovuto essere interpretato da Humphrey Bogart, ma Bogie sta male e muore nel gennaio del ’57. Il ruolo viene affidato a Spencer Tracy, sovrappeso e fuori parte, che ci teneva moltissimo tanto da acquistare parte dei diritti diventando coproduttore. La regia, dopo le candidature di Vittorio De Sica e Fred Zinnemann, passa a John Sturges, un abile artigiano dai ritmi incalzanti. Ma, abituato al solido terreno del cinema d’azione, non è a suo agio con l’acqua dell’oceano. Il film – che esce in Usa l’11 ottobre 1958 – non convince nessuno, tanto meno i lettori del bellissimo libro. La cosa peggiore è la musica tonitruante di Dimitri Tiomkyn che viene puntualmente premiata con l’Oscar.  Si moltiplicano i flashback per movimentare l’azione, ma si salvano solo i leoni che giocano come cuccioli sulle spiagge africane nei sogni del vecchio Santiago.

Nello stesso periodo, pochi lo sanno, c’è un fan italiano di Hemingway, il regista Valerio Zurlini che sta lavorando alla sceneggiatura del romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi del ’50, fortemente deciso a trarne un film che avrebbe dovuto essere il ritratto umano del grande scrittore. Non più il vincitore di tutte le battaglie, ma il perdente, quasi un vecchio clown in disarmo. Il progetto però non va in porto.

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