Hollywood sul Tevere tra mito e gossip

by Orio Caldiron

“Negli anni cinquanta e sessanta Roma divenne ancora una volta un impero”, comincia così Hollywood sul Tevere di Hank Kaufman e Gene Lerner. «Non in conseguenza di uno schiacciante potere militare o a causa di una geografica di vitale importanza per strategie geopolitiche, bensì attraverso il magnetismo della celluloide e grazie alla illusione operata dalla macchina da presa. I vasti stabilimenti cinematografici di Cinecittà divennero il nuovo Palatino. Roma stessa divenne un gigantesco set cinematografico da mozzare il respiro e accolse un numero infinito di divinità dello schermo proveniente dai più vari domini, con seguiti di domestici e sicofanti, che volevano creare il loro nuovo Mercurio: il paparazzo”.

Se nella sua autobiografia Kirk Douglas rievoca l’avventura di Ulisse (Mario Camerini, 1954) come una piacevole vacanza nel paese del sole, dove gli appuntamenti mondani si alternano alle grandi nuotate, in realtà il match comincia ancora prima dell’inizio delle riprese. Con un memo a Dino De Laurentiis in cui l’attore esprime le sue perplessità nei confronti della sceneggiatura “che non gli piace, che non offre possibilità di sviluppo né al personaggio di Ulisse, né a quello di Penelope”, ma contiene “molti di quegli elementi di pretenziosità hollywoodiana” che non gli sono mai interessati. “Credo che la trama debba essere il più possibile semplice, e quando si ha a che fare con un classico bisogna evitare ad ogni costo il pericolo di essere pomposi e simbolici, il che spesso significa del tutto oscuri”.

UN SET BURRASCOSO

Non va meglio neppure con il regista, che punta su un’interpretazione borghese di Ulisse, visto come un giornalista curioso del mondo. Sul set si moltiplicano i dissapori. Kirk Douglas diveggia, è arrogante, sgradevole, sgarbato con tutti. Girata l’ultima inquadratura, Camerini pubblicamente prima di lasciare il teatro di posa, si sfoga: “Adesso vorrei che l’interprete traducesse al signor Douglas quanto segue, ossia che io ho portato avanti l’Ulisse perché ho una coscienza professionale e so l’impegno finanziario che un film implica, però il signor Douglas si è comportato veramente male, in modo che tante volte mi è venuta la tentazione di smettere e piantare tutti in asso. E altrettanto male si è comportato con voi, ragazzi della troupe”. Alla festa finale al ristorante Apuleius di Ostia Antica con i camerieri in costume di antichi romani, il regista, dopo aver giurato di non andarci, si lascia convincere da Dino De Laurentiis. Kirk, più su di giri che mai, lo accoglie buttandosi in ginocchio e cantandogli in italiano, sull’aria di “Mamma”, una canzone inventata lì per lì che intitola “Papà”. Seguono applausi, abbracci, brindisi.

Il carisma del divo hollywoodiano porta comunque fortuna al film, che il Italia è subito in cima alla classifica degli incassi prima di trionfare in tutto il mondo. Ulisse segna la piena consacrazione di Silvana Mangano che, lasciatasi alle spalle l’immagine aborrita della mondina, è affascinante nei panni di Penelope e di Circe, il doppio volto della femminilità, la perfetta incarnazione della bellezza terrena e esotica, quotidiana e misteriosa. Il modello sofisticato a cui si rifarà in tutta la sua carriera l’attrice che non vuole essere attrice, la diva malgré soi même, in cui si avverte sempre di più il senso allarmante dell’inquietudine esistenziale.

Chi sono i divi di un kolossal come Guerra e pace (King Vidor, 1956) ­ duecento giorni di riprese, milleduecento metri cubi di neve artificiale, centoventimila comparse, centosessantamila metri di pellicola, Mosca lunga tre chilometri costruita in quaranta giorni negli studi della Tuscolana ­ dove Cinecittà e Hollywood si guardano allo specchio in un impossibile confronto all’ultimo ciak? Potrebbero essere i produttori, nonostante la prevedibile battuta in voga all’epoca: “Ponti e De Laurentiis producono Guerra e pace, ma Ponti ha letto solo il primo volume e De Laurentiis il secondo”. O il regista che per più di un anno e mezzo lavora al film tutti i giorni, domeniche comprese, ricorrendo sempre per dirimere i dubbi e le incertezze a quella meravigliosa sceneggiatura che si rivela con il romanzo di Tolstoj…? O Mario Soldati, il regista della seconda unità, che si diverte come un pazzo a girare le scene di battaglia nel suo Piemonte, a Pinerolo sotto la pioggia battente, al Sestriere nella neve, a Valenza Po, nel castello di Stupinigi. Se si passa poi agli attori, Mel Ferrer è appena diligente nel ruolo di Andrej, Henry Fonda notevole in quello di Pierre, ma Audrey Hepburn s’impone tra gli attori: è una Natasha straordinaria che corre, ride, si arrabbia, piange, svaria dalla spensieratezza alla disperazione, vivendo il personaggio dal di dentro, dimenticandosi di recitare.

Non andrebbe neppure la pena di occuparsi di Sodoma e Gomorra (Robert Aldrich, 1962), dove con le gemelle Kessler reduci dal successo di Dadaumpa di “Studio Uno” siamo ormai agli spiccioli del divismo internazional-autarchico. Ma il film è curioso se non altro per la polemica presenza di Sergio Leone, a cui il ruolo di regista della seconda unità sta ormai stretto. Non solo ha lavorato con quasi tutti gli “invasori” americani della Hollywood sul Tevere – da Quo vadis? (Mervyn LeRoy, 1951) a Elena di Troia (Robert Wise, 1956) e Ben Hur (William Wyler, 1959), dove – alla troupe si continua a far vedere e rivedere il film muto di Fred Niblo per capirne il segreto della corsa delle bighe – ma ha già esordito in proprio con Il colosso di Rodi (1960). Solo pochi anni dopo, Per un pugno di dollari (1964) segna la nascita dello spaghetti-western. Star in declino e strepitose new entry, gli attori americani – da Clint Eastwood a Lee Van Cleef, da Eli Wallach a Charles Bronson, da Rod Steiger a James Coburn – sono chiamati a prestare volti e corpi alla geniale contraffazione della mitologia della frontiera, attraverso cui si delinea la nascita di un autore, uno dei più grandi e originali del cinema italiano.

IL DISASTRO CLEOPATRA

Nonostante le ambiziose intenzioni del regista, Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz, 1963), “concepito in stato di urgenza, girato in isteria, finito nel panico”, è un flop terrificante che manda a gambe all’aria la Fox e mette a dura prova la routine degli studios romani. Come reagisce Mankiewicz? Con ironia, come si intuisce dalla storiella attribuitagli all’epoca: “6 aprile 1962. I giornali italiani pubblicano in prima pagina un articolo in cui si cita la solita fonte anonima, ma autorevole, secondo la quale tra Burton e Liz non ci sarebbe nulla. Il terzo uomo sarebbe Joseph L. Mankiewicz, che avrebbe convinto Burton – definito un idiota dal passo strascicato – a portare in giro Elisabeth per fargli da paravento. Qualcuno è venuto sul set per chiedere a Mankiewicz se ha qualcosa da dire su questa storia. ‘Sì’, ha risposto, in realtà Burton ed io siamo innamorati uno dell’altro e miss Taylor ci serve da paravento”.

Nella conferenza stampa dedicata nell’ottobre 1966 al lancio di La Bibbia, i duetti tra il regista John Huston e il produttore Dino De Laurentiis sono irresistibili. Perché un regista ateo ha accettato di dirigere il supercolosso biblico? “Non sono Cecil B. DeMille e non ho alcuna intenzione di mettermi a speculare sull’esistenza di Dio. La Bibbia è un mito universale, una grande favola che spero tocchi la gente a livello inconscio. È la prima storia di avventure, la prima storia d’amore, il primo poliziesco a suspense e anche il primo racconto di una fede”. Perché De Laurentiis l’ha prodotto? “Se dicessi che ho prodotto La Bibbia per diffondere la conoscenza delle Scritture, forse sarei frainteso, ma se dico che ho ritenuto doveroso, utile, soprattutto storicamente necessario diffondere la conoscenza delle Scritture in questo particolare momento della storia del mondo dico qualcosa in cui credo profondamente”. L’accidentata lavorazione di La Bibbia (1966) di John Huston agita per parecchi mesi le cronache mondane grazie agli amori tempestosi di Ava Gardner. Quasi sempre ubriaco, George C. Scott la riempie di pugni, continuando a chiederle nel clou del delirio alcolico: “Perché non mi sposi?”. Sara dagli occhi pesti, che ogni mattina il truccatore si ingegna a cancellare, la bellissima Ava agita le notti romani, fa strage di cuori, ma non riesce a nascondere la masochistica preposizione a mettersi nei guai nella vita e sullo schermo. Nel cast eterogeneo e scricchiolante, il più bravo è il sessantenne regista che nel ruolo di Noé si rivela un estroso incantatore di animali tra ingenuità e autoironia.

ANNA TRA HOLLYWOOD E CINECITTÀ

Il segreto di Santa Vittoria (Stanley Kramer, 1969) l’ultimo film di Anna Magnani prima dell’approdo in Tv, ha tutta l’aria del definitivo congedo della Hollywood sul Tevere. Orson Welles vi si è ispirato per Operation Cinderella, uno dei suoi progetti rimasti nel cassetto a cui avrebbe dovuto partecipare anche Anna, imperniato sull’arrivo di una compagnia cinematografica hollywoodiana in un piccolo paese italiano.  Se nel passato c’erano stati saraceni, mori, normanni, tedeschi, americani, ora è la volta dei cinematografari, ma la nuova invasione è in tutto e per tutto un’occupazione militare e la lavorazione del film trasforma completamente la vita degli abitanti.

La troupe di Kramer invade Anticoli Corrado, a cinque chilometri da Roma, ma l’entusiasmo cinefilo della popolazione ha perso l’innocenza degli inizi e tutti vogliono soldi per apparire sullo schermo. Non aggiunge nulla alla carriera di Anna Magnani che era andata direttamente alla fonte, preferendo la Hollywood sul Pacifico, dove, prima attrice italiana, si aggiudica l’Oscar per La rosa tatuata (1955) accanto a Burt Lancaster, lo straordinario principe di Salina di Il Gattopardo (1963). Per interpretare poi Selvaggio è il vento (1958) con Anthony Quinn e Pelle di serpente (1960) con Marlon Brando. Quinn in Italia è di casa, vi ha girato molti film da Attila (Pietro Francisci, 1954) a Barabba (Richard Fleischer, 1961), ponendo le basi di una lunga e onorevole carriera internazionale. Ogni tanto qualcuno fa il suo nome per questo o quel film, ma Brando nessuno è riuscito mai a catturarlo. L’unica trasferta italiana di Marlon risale all’ottobre ’54, quando viene a Roma per presenziare al cinema Fiamma alla prima di Fronte del porto e dà di matto non appena si accorge che il film è in italiano: “Non mi sono mai visto doppiato. Sono un attore, non il pupazzo di un ventriloquo”. E si consola solo guardando insistentemente nell’abissale décolleté di Sophia Loren.

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