Ingrid Bergman: cuore che batte o colpi di cannone?

by Orio Caldiron

Quando nel 1979 Hollywood organizza per Ingrid Bergman – nata a Stoccolma nel 1915, muore a New York nel 1982 –  un clamoroso “tribute” alla carriera, chiamando a festeggiarla i vip con cui ha lavorato, la sorpresa maggiore è il set perfettamente ricostruito del Rick’s Café di Casablanca, con Frank Sinatra che canta “As Time Goes By”, la celebre canzone del film.

Sono passati quarant’anni da Intermezzo di Gregory Ratoff, il suo primo film americano che dopo sei anni di titoli realizzati in patria le apre le porte del successo internazionale con la storia strappalacrime della giovane pianista innamorata del grande violinista spossatissimo, in cui la fresca naturalezza dell’attrice e la tenace volontà di essere “com’è” prevalgono sugli artificiosi manierismi degli studios, abituati a modificare il nome, la personalità, gli occhi, la faccia dei nuovi arrivati. David O Selznick, il tycoon abituato a rimodellare le dive secondo gli standard hollywoodiani e a tempestare di memorandum chilometrici i registi riluttanti, questa volta non riesce a spuntarla e si adatta a giocare la carta della naturalezza nel lancio della bella svedese che, in camicetta e tailleur, incarna la ragazza pronta alla trasgressione pur di vivere la propria vita.

NEL DRAMMA DELLA GUERRA

La vibrante fragilità di Ilse, incerta tra due uomini nel dramma della guerra – «E’ il mio cuore che batte o sono i colpi di cannone?» – segna come nessun altro personaggio il percorso divistico dell’attrice che con Casablanca (1942) di Michael Curtiz entra subito nel mito, ammirata da generazioni di cinefili che sanno a memoria le battute del film. Solo l’anno dopo in Per chi suona la campana (1943) di Sam Wood, dal romanzo di Hemingway sulla guerra civile spagnola, è irriconoscibile con i capelli corti nel ruolo di Maria, la ragazza che fa l’amore nel sacco a pelo con Gary Cooper, il giovane americano delle brigate internazionali. Mister Papa, che non riuscì mai a vedere il film per intero, aveva dato la sua benedizione alla scelta di Ingrid, che per sentirsi guerrillera aveva mangiato per parecchie settimane solo cibi in scatola.

Angoscia (1944) di George Cukor, in cui mette da parte il tailleur per il costume ottocentesco, le fa conquistare il suo primo Oscar. L’atmosfera gotica della casa degli incubi in cui si svolge la vicenda dell’affascinante Gregory Anton (Charles Boyer) e della romantica Paula Alquist (Ingrid Bergman) – si sono conosciuti in Italia e appena sposati vanno a vivere nell’abitazione londinese della zia di lei, misteriosamente assassinata qualche anno prima – è soltanto lo scenario di sfondo in cui il “regista delle donne” affonda il bisturi nel rapporto di coppia. La macchineria del thriller, con i suoi giochi di ombre avvolgenti e di passi che risuonano nel buio, la stessa ambientazione vittoriana, con l’impeccabile a plomb degli arredi sovraccarichi e dei costumi ingombranti, sono soltanto il ring sontuoso e sofisticato dello scontro all’ultimo sangue tra i coniugi. Smarrita nei labirinti del disamore, è che s’impone per la duttilità nello svariare i toni di una performance mobilissima.

PIÙ HITCHCOCK DI COSÌ

Notorius-L’amante perduta (1946), definito da Truffaut «la quintessenza di Hitchcock», intreccia la vicenda spionistica e la storia sentimentale in una scrittura cinematografica di singolare modernità. Se i riferimenti al nazismo e alla bomba atomica riflettono l’attualità dell’epoca – è nello stesso periodo che Hitchcock va a Londra per mettere a punto il film di montaggio sull’olocausto – l’intensità del rapporto erotico tra Ingrid Bergman e Cary Grant è assolutamente inconsueta per lo stesso maestro del brivido che ama lavorare sui sottotesti più che sulle superfici. Il gioco dell’eroina – che si sposa con un uomo che non le interessa non solo per dovere professionale, ma soprattutto per sfidare i sentimenti repressi di Cary Grant di cui è innamorata – diventa il cuore incandescente dell’intero film grazie alla capacità di abbandono dell’attrice che lascia lievitare la pulsione passionale nonostante la resistenza di lui che rimuove, si nega, confonde le carte, inscena una sadica volontà di sopraffazione fino al lungo, infinito bacio, entrato ormai nella storia del cinema.

Forse è sbagliato cogliere i segnali d’inquietudine dei personaggi dello schermo per chiedersi come sta andando il soggiorno americano della svedese dagli occhi azzurri alle prese con la fabbrica dei sogni. Sposata da qualche anno con Peter Lindstrom, che le fa anche da agente, ha una figlia che nel ’48 compie già dieci anni, ma il matrimonio è in piena crisi. Il successo le ha consentito di realizzare l’aspirazione che coltiva fin da piccola di indossare i panni di Giovanna d’Arco. Non solo in teatro, in una felice esperienza newyorkese, ma anche al cinema nel deludente Giovanna d’Arco (1948) di Victor Fleming, di cui comunque va molto fiera se non altro per esserci riuscita grazie alla sua cocciutaggine. Ma la voglia di cambiare, l’insoddisfazione nei confronti dei riti hollywoodiani, degli obblighi di un mondo ossessionato dalle regole, coincide con la folgorazione del neorealismo, con la scoperta di un modo nuovo di fare cinema che la turba profondamente fino a indurla a scrivere la celebre lettera a Roberto Rossellini: «Caro signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il tedesco, che si fa quasi capire in francese e in italiano sa dire solo “ti amo”, sono pronta a venire in Italia e lavorare con lei. Ingrid Bergman».

LA STAGIONE ITALIANA

La stagione italiana si apre nel marzo 1949 nel segno dello scandalo. La lavorazione di Stromboli, che inizia il mese successivo, coincide con un polverone di polemiche, insinuazioni, anatemi, di cui si riempiono i giornali di tutto il mondo, mentre esplode l’irruente indignazione di Anna Magnani, che fino a poco prima era stata, nella vita e nell’arte, la compagna del regista. L’ostracismo dell’opinione pubblica americana assume toni inimmaginabili, destinati a risolversi nella totale rimozione della star che ha abbandonato Hollywood, il marito e la figlia. Nel frattempo il rapporto di lavoro tra Ingrid e Roberto diventa una chiacchieratissima storia d’amore, da cui nel ’51 nasce Robertino e nel ’52 le gemelline Isabella e Isotta. Il clan rosselliniano – tra l’appartamento di via Bruno Buozzi e la grande casa di Santa Marinella vicino al mare ­ è una grande famiglia allargata senza distinzioni troppo formali e etichette di comodo, punto di riferimento degli amici del cinema, della cultura, della politica, a cui più tardi Ingrid ripenserà sempre con affetto e nostalgia come un regalo fatto di calore umano e di semplicità quotidiana che la vita le aveva riservato.

Sono per Rossellini gli anni contraddittori ma vivacissimi nei quali l’orizzonte estetico del primo neorealismo viene cambiando per aprirsi all’introspezione, ai temi della coscienza in crisi e della soggettività lacerata, in un processo di scarnificazione della drammaturgia tradizionale, in cui si delinea un nuovo paesaggio cinematografico che prefigura la Nouvelle Vague. Ingrid Bergman è indubbiamente al centro della “trilogia della solitudine”, formata da Europa 51 (1952), Viaggio in Italia (1954) e La paura (1955), ma fino a che punto si riconosce in Irene Girard, Katherine Joyce, Irene Wagner, le protagoniste in crisi dei tre film, nei loro itinerari interiori, nelle impietose radiografie a cui sembra mirare lo sguardo rosselliniano? Sono tutte in qualche modo esperienze difficili, al limite, nelle quali si avverte la componente autobiografica della insoddisfazione, insieme privata e professionale.

L’ultima avventura della coppia è la lunga tournée di Giovanna d’Arco al rogo, l’oratorio di Honegger messo in scena con la regia di Rossellini al Teatro dell’Opera San Carlo di Napoli nel ’53 e ripreso poi al San Carlo di Palermo e alla Scala di Milano. Si protrarrà fino alla primavera del ’55, quando i rapporti tra i due sono ormai vicini alla rottura e si sta già definendo il progetto del film indiano.  Ingrid Bergman, vestita con un austero sacco di iuta, dominava la scena dall’inizio alla fine, recitando in italiano, francese, inglese, svedese, con un successo enorme che si ripete nei vari paesi davanti a un pubblico traboccante. Lo spettacolo gira per l’Europa, dal Teatro dell’Opera di Barcellona all’Opéra di Parigi, dallo Stollo Theatre di Londra al Teatro Reale di Stoccolma. «Quando mi ritrovai nel mio paese per presentare quest’oratorio che amavo, provai un’immensa gioia», dirà. «Finalmente potevo parlare la mia lingua madre. L’accoglienza che ricevemmo in Svezia fu veramente straordinaria. Roberto ed io siamo stati invitati a un ballo a cui partecipava anche il re. Così com’era successo in Spagna, in Francia, in Inghilterra, portavamo con noi i bambini, viaggiando un po’ come degli zingari, all’italiana. Avevamo una quantità di bagagli, una cameriera e la bambinaia. Non ho mai perdonato completamente a Roberto la sua proibizione di lavorare con altri registi. Tutti i più bravi registi italiani del momento, Zeffirelli, Fellini, Visconti, De Sica, volevano lavorare con me, trovandomi pienamente consenziente. Roberto, invece, mi considerava una sua proprietà».

LA RENTRÉE HOLLYWOODIANA

Anastasia (1956) di Anatole Litvak segna la rentrée hollywoodiana dell’attrice, una megaproduzione che riprende la storia romanzata della presunta figlia dello zar Nicola II, l’unica che sarebbe misteriosamente scampata all’eccidio della famiglia reale. Scandito secondo le ricette del melodramma dalla mano sicura di un regista abilissimo e sottovalutato, il film funziona perfettamente, anche grazie a un cast da grandi occasioni. Si può anche leggerlo come la trascrizione in codice della vicenda pubblica dell’attrice cacciata dalla porta ai tempi dell’”affare Rossellini” e recuperata giusto in tempo quando i suoi splendidi quarant’anni lasciano intendere che la smemorata vestita di stracci potrebbe essere la vera erede al trono, un’autentica, grande star da rimettere subito sul piedistallo, incoronandola con il suo secondo Oscar.

Nei decenni successivi, Ingrid vive sempre di più a Londra e si divide tra  cinema, teatro e tv, moltiplicando gli impegni, che non le impediscono di incontrare quando può i suoi “bambini” italiani. Se Assassinio sull’Orient Express (1974) di Sidney Lumet, in cui è una missionaria svedese trasandata e tremante, le guadagna il   terzo Oscar della sua carriera, questa volta come miglior attrice non protagonista, l’ultima grande occasione la deve al suo connazionale Ingmar Bergman, per il quale recita in svedese nel toccante Sinfonia d’autunno (1978) che  mette a confronto con lucida crudeltà la madre pianista (Ingrid Bergman) e la figlia sempre trascurata (Liv Ullmann), analizzando con implacabile rigore da entomologo dell’anima l’inestricabile groviglio di scontri e di risentimenti, che sembra ricominciare sempre da capo. Sapranno curare le proprie ferite, comporre finalmente la contrapposizione tra vita e carriera? Sono decise a non arrendersi anche se forse è troppo tardi. Non può essere troppo tardi.

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