Le epifanie improvvise di Federico Fellini

by Orio Caldiron

Il cinema non riproduce la città, la inventa. Se la immagina come vuole. Scompone e ricompone a suo capriccio strade e monumenti, edifici e persone, abitudini e gesti. Stravolge piani regolatori e assetti urbanistici, elude codici della strada e leggi di gravità, costruisce percorsi impossibili ignorando sensi unici e divieti di sosta. Non avviene diversamente neppure per Roma, per la Roma del cinema. Nella quale il Colosseo sta a due passi dall’Ara Pacis, i Fori Imperiali sono vicini all’Eur, piazza Venezia dà su piazza di Spagna, secondo la logica combinatoria di un mezzo espressivo che ha l’attendibilità del sogno, la riconoscibile evidenza dell’immaginario, la verità delle sue stesse bugie. Come mettere ordine nelle tante immagini di Roma che il cinema accumula nel corso dei decenni, spesso particolarmente vive, intense, riconoscibili, senza correre il rischio dell’elenco telefonico?

ROMA, L’OSSERVATORIO PRIVILEGIATO

Roma (1972) di Federico Fellini, è l’osservatorio privilegiato per attraversare le vicende del cinema italiano, guidati dallo sguardo irrequieto del singolare inquilino del Teatro 5. Negli studi di Cinecittà il maestro riminese costruisce di film in film il plastico vivente e affollato della capitale amata e odiata, rimossa e vagheggiata, come un sogno lungo una vita. Roma diviene con lui il set di un’autorivelazione personale, visceralmente soggettiva e parziale, il punto di riferimento di un viaggio nella memoria che tende alla foto di gruppo, in cui ognuno finisce con il ritrovare almeno un frammento di sé e della propria storia. Il compiaciuto narcisismo dell’autore favorisce paradossalmente la progressiva appropriazione della città, il terreno germinale e fecondo in cui – da Lo sceicco bianco (1952) a La dolce vita (1960), da Toby Dammit (1967) a Fellini Satyricon (1969) – matura il corpo a corpo tra il regista e la capitale che all’inizio sembra prendere le distanze per diventare alla fine immedesimazione e complicità.

La rivelazione di Roma è quella di una città ripercorsa nel suo passato e nel suo presente, nei suoi itinerari monumentali come nei tracciati sotterranei, nei rituali più beceri, come negli appuntamenti più raffinati. Si tratta di un affresco magmatico e folgorante in cui l’inchiesta, subito sopraffatta dall’affabulazione, riaffiora nella misura di un finto documentario di raccordo. Si pensa allo scenario della trattoria all’aperto con il tram che passa accanto ai commensali, dove il rito della cucina indigena dagli acri sapori si celebra in un clima gastrosessuale, illividito dalle luci spettrali e dai colori iperrealistici. Ma anche all’incursione nel teatro del varietà della Barafonda in cui palcoscenico e platea si rimandano a vicenda in una sorta di allucinazione dai tagli espressionisti. Il film procede per accumulo, attraverso la tecnica ormai consolidata delle entrate successive e delle rinnovate sorprese.

LA SEQUENZA DEL GRANDE RACCORDO

Lo sguardo si muove in un registro di epifanie improvvise che trova una sorta di paradigma nella sequenza della talpa della metropolitana che scopre lo spazio vuoto della casa romana con gli affreschi destinati subito a scomparire. Nella lunga sequenza del Grande Raccordo Anulare la ridondanza delle situazioni insolite e delle apparizioni inattese si accompagna alla ostentazione del dispositivo tecnico delle macchine da presa, della gru e della troupe, nel tentativo di stabilire una soglia attraverso cui si entra e si esce dalla città: uno dei momenti più alti del film in cui si afferma la poetica felliniana dell’eccesso, con tutti che si guardano tra una automobile e l’altra, mentre l’occhio del cinema fa anch’esso parte del quadro. Quando, dopo la sequenza della Festa de Noantri, il regista cerca di intervistare Anna Magnani che sta tornando a casa, e ne ottiene un secco rifiuto, un perentorio «Nun me fido», si ripropone la chiassosa romanità in vernacolo di Campo de’ fiori (1943) e L’ultima carrozzella (1943), un momento particolarmente vivace del lungo rapporto tra l’attrice e la città.Il finale dei motociclisti che attraversano la città monumentale prosegue e allarga, con la rombante presenza dei centauri meccanici, la metafora del cinema, amplificata nell’efficacia dell’impatto visivo e sonoro, un modo per marcare il territorio e sottolineare la potenza di un mezzo che perimetra la mappa urbana nel momento in cui la fa vivere per un’ultima volta.

Nel cinema del dopoguerra che sembra ricominciare da zero, il neorealismo è il momento fondamentale della riappropriazione della città come grande e disponibile scenografia. Il processo ai gerarchi fascisti filmato da Luchino Visconti in Giorni di gloria (1945), la corsa di Anna Magnani verso il camion tedesco in Roma città aperta (1945), la gente in festa che va incontro agli alleati in Paisà (1946), entrambi di Roberto Rossellini, sono immagini indimenticabili che hanno lo spessore della storia rivisitata a caldo a pochi mesi di distanza dagli avvenimenti. Non è minore la forza di rivelazione dei film di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Umberto D. (1951), Il tetto (1956), altrettanti viaggi dentro la città – il Galoppatoio di Villa Borghese e i traffici di via Veneto, i casermoni di Val Melaina e le bancarelle di Porta Portese, l’ultimo percorso in tram del pensionato in crisi, il cantiere aperto delle periferie in espansione – inchieste in progress che scoprono luoghi e ambienti e delineano una iconografia urbana inedita e sorprendente.

LE SCOPERTE DELLA COMMEDIA

«Ecco l’epico paesaggio neorealista, / coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, / i muretti scrostati, la mistica / folla perduta nel daffare quotidiano» è il paradigma mitico, il “fuori storia” attraverso cui Pier Paolo Pasolini rappresenta in Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) la rabbia disperata dei suoi ragazzi di vita. Come dimenticare la città deserta di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni, con la Borsa, gli edifici anonimi, il laghetto, i viali dell’Eur, lo spazio geometrico, prosciugato e disseccato, in cui si consuma la malattia dei sentimenti, la «sottigliezza del senso» di cui parla Roland Barthes e scuote una volta per tutte la fissità delle convenzioni narrative? Ma spetta alla commedia aver allargato indefinitamente il set, aver rotto gli steccati della finzione, l’aver generalizzato il rapporto tra il cinema e la città eterna moltiplicando le occasioni e i punti di vista. Il gioco delle maschere fa della città – da I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli a Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi, via via fino a Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini – il grande palcoscenico dei difetti nazionali, l’occasione di uno sbeffeggiamento sarcastico e impietoso a cui non è estranea la complicità. Se Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi sono stati lo specchio grottesco della mostruosità quotidiana, nessun altro ha dimostrato la stessa irriducibile irruenza di Alberto Sordi, maschera romana per eccellenza, immagine insieme cangiante e immutabile di un rapporto straordinariamente forte con le proprie radici, geniale incarnazione della crudeltà che si nasconde dietro la bonomia, dell’immaturità che convive con l’arroganza.

Sono gli sceneggiatori, da Age e Scarpelli a Suso Cecchi d’Amico, da Ennio Flaiano a Ruggero Maccari, da Sandro Continenza a Rodolfo Sonego, che rivisitano in lungo e in largo la città, s’impadroniscono delle “voci di dentro” dei vari quartieri, assaporano le inflessioni particolari, i gesti quotidiani, ripetono le imprecazioni come giaculatorie. Sceneggiatore tra i più rappresentativi della commedia è stato per molti anni anche Ettore Scola, prima di diventare uno dei registri più dotati del cinema nazionale. Sensibile al vissuto quotidiano, è forse l’autore che più di altri ha saputo immergersi nella storia della città e risolverla in chiave contemporanea: basterebbe pensare, ancor prima di Una giornata particolare (1977) e La famiglia (1987), a C’eravamo tanto amati (1974). Non è solo una sorta di addio senza rimpianti alla stagione della commedia, in cui gli umori grotteschi cedono al bilancio generazionale, ma anche la definitiva consacrazione della città come set sia nella sequenza di Trinità dei Monti che, nell’affabulazione cinefila di Stefano Satta Flores, diventa la scalinata ejzenšteniana di Odessa, sia nella straordinaria ricostruzione della scena di Fontana di Trevi di La dolce vita con Marcello Mastroianni e Anita Ekberg.

IL RITORNO A CINECITTÀ

Il cerchio si chiude nel 1987 con Intervista. Nel suo penultimo film, Fellini ripropone la struttura frantumata e frammentaria di Roma, mentre la pretestuosa simulazione documentaristica si accentua nella presenza assillante della troupe giapponese che lo insegue dall’inizio alla fine, ma anche nell’accumulo volutamente confuso e disordinato delle sequenze e dei dispositivi tecnici della ripresa. Il rapporto tra Roma e Cinecittà, il processo di appropriazione reciproca e speculare, l’allargamento del cinema all’intera città come grande set dalle infinite potenzialità, si capovolge nel ritorno a Cinecittà, in cui tutto confluisce e si risolve nel segno dell’artificio, della costruzione, del metacinema. Se in Roma gi intermezzi si aprivano ai vari blocchi del passato e del presente e i toni interlocutori dell’inchiesta cedevano alla intensità rappresentativa della messa in scena, in Intervista convivono insieme il film da faree il film che si sta facendo, il progetto e la realizzazione, i momenti dell’affabulazione e le procedure tecniche e inventive dell’allestimento.

Sin dalla rievocazione della prima volta a Cinecittà per intervistare la diva, i due momenti si sovrappongono e si rincorrono confermando che si sta facendo del cinema e insieme che, nel cinema, tutto è possibile. Non si può girare nella Casa del Passeggero, ormai inagibile, e allora si monta l’insegna nella sede della vecchia Stefer, il deposito dei tram fuori uso. L’attore napoletano che deve interpretare il gerarca fascista non può venire e allora lo sostituisce Pietro Notarianni, il produttore esecutivo. Il viaggio del tranvetto azzurro che dalla Stazione va a Cinecittà è talmente avventuroso che passa vicino alle cascate, ai contadini che cantano nei campi e agli indiani appostati nei dintorni. Non diversamente avviene nella sequenza del matrimonio all’aperto, in uno sfarfallio di petali di carta, in cui un regista istrione mostra agli sposi lo slancio con cui si devono abbracciare, mentre la troupe, con ombrelloni, strani macchinari, schermi riflettenti, insegue faticosamente i protagonisti. O nel set esotico in cui un altro regista ancora più cialtrone urla dall’alto della gru i suoi ordini autoritari fino a quando gli elefanti di cartone non perdono vergognosamente le proboscidi in un fracasso infernale.

Il solo momento in cui si esce da Cinecittà è quando Fellini con Mastroianni, vestito da Mandrake per una pubblicità, organizza la visita a sorpresa a Anita Ekberg nella sua villa in campagna, tirandosi dietro una parte della troupe in cui non mancano neppure i giapponesi con le telecamere sempre accese. Basta un lenzuolo per schermo, Marcello e Anita accennano due passi di danza e diventano i protagonisti di La dolce vita che ventisette anni prima ballano nella Fontana di Trevi. Il set affollato e chiassoso, frastornante e caotico, cede per un momento alla magia del cinema che custodisce gelosamente il segreto dell’eterna giovinezza.

*Orio Caldiron, saggista e critico, è uno dei maggiori studiosi italiani di cinema, autore di centinaia di scritti in cui la straordinaria competenza si salda alla passione cinefila in un linguaggio immediato e colloquiale. Ha dedicato mostre e programmi televisivi a personalità e momenti del cinema italiano. Docente universitario di lungo corso, direttore di prestigiose collane editoriali, è stato Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

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