Lo sguardo partecipe di un grande attore-autore

by Orio Caldiron

Sospeso tra teatro e cinema, recitazione e regia, autorialità e committenza, Vittorio De Sica è un personaggio complesso e sfuggente, la cui esperienza artistica si è svolta nell’arco un cinquantennio – dalla fine degli anni venti a metà degli anni settanta, sullo sfondo di drammatici avvenimenti storici, di profonde modificazioni del contesto sociale, di radicali mutamenti dei media – che ha visto avvicendarsi le fortune del teatro, della radio, della canzone, del primo cinema sonoro e  della televisione.

La sua popolarità cinematografica, è il primo divo della nuova società di massa, si avvia sin dall’inizio degli anni trenta e coincide con la fortuna dell’uomo di teatro e del cantante che rimbalza dal palcoscenico allo schermo, dalla radio al disco. Fondamentale è l’incontro con Mario Camerini che contribuisce a indirizzarlo verso i tratti dimessi della sorridente naturalezza a cui si rifarà all’inizio il futuro regista. Gli uomini che mascalzoni…(1932) mette a frutto lo sfondo milanese tra pubblicità e modernizzazione, suggerendo lo spazio mitico  in cui De Sica in bicicletta che insegue Lia Franca sul tram diventa un apparizione proverbiale della nostra identità collettiva. Il signor Max (1937), trasferta nel bel mondo come lo vedono i piccoli borghesi, è la strepitosa epopea del doppio gioco. Sguardo incrociato tra due universi paralleli, la performance implica il trasformismo dell’attore, il gusto del rischio, la tentazione del tavolo verde.

Il signor Max di Mario Camerini con Assia Noris e Vittorio De Sica

L’ATTORE DIVENTA REGISTA

Maddalena… zero in condotta (1940) – diretto e interpretato da De Sica subito dopo l’esordio con Rose scarlatte dello stesso anno – è quasi un’affollata fotografia di gruppo dell’ambiente scolastico in cui fiorisce l’idillio. Il lavoro sul personaggio prosegue con Teresa Venerdì (1941), in cui i volti nuovi si confrontano con l’apparizione straordinaria della “vampiressa” Anna Magnani. Un garibaldino al convento (1942) è l’addio del regista all’’attore. Segno di un raggiunto traguardo anagrafico che sconsiglia il cineasta di fare il bell’amoroso o prova del nove della conquistata autonomia del regista che può rinunciare a essere personaggio tra i personaggi?

I bambini ci guardano (1943) è un punto di arrivo e insieme un punto di partenza. Si sente che la scoperta del cinema è la conquista di uno sguardo partecipe, fa tutt’uno con la volontà di mescolarsi tra i personaggi fino a identificarsi con loro, ma è anche la decisione di raccontarli senza tradirne lo spessore umano, senza sminuirne gli slanci e le pene. Si avverte la presenza di Cesare Zavattini, l’interlocutore privilegiato che nel dopoguerra darà vita con De Sica a una ventina di film tra cui spiccano alcuni capolavori dell’intera storia del cinema italiano. Nonostante le grandi differenze culturali e psicologiche che contrappongono le due personalità, le loro collaborazione è assolutamente eccezionale.

DE SICA E ZAVATTINI CHE COPPIA

Sciuscià (1946) è intuìto, intravisto da De Sica quando s’ imbatte in Scimmietta e Cappellone che al galoppatoio di Villa Borghese spendono i soldi guadagnati a Via Veneto. È invece Zavattini che cattura dal libro di Luigi Bartolini lo spunto d’avvio di Ladri di biciclette (1948), la cui sceneggiatura dal vero tende a coincidere con i minuziosi sopralluoghi del film. Miracolo a Milano (1951), nella sua gestazione più che decennale, si addentra nell’archeologia di Zavattini letterato ancor prima che soggettista, recuperandone la scrittura eventica, tra radiose epifanie e sottili effrazioni. Umberto D. (1952) è a sua volta l’estremo punto di arrivo dello sceneggiatore deciso a proporre finalmente un film tutto suo, integralmente zavattiniano.  Ma De Sica vi si immedesima totalmente, fino a vederlo come un omaggio a suo padre e a considerarlo il suo film migliore, il più rigoroso e il più amato. Quanto a Il tetto (1956), se sembra inseguire neorealisticamente l’immediatezza della cronaca, lo fa con un’eleganza espressiva, con un’intensa, quasi musicale scansione dei volti e degli spazi.

Sciuscià

Straordinario maestro di recitazione, l’attore ha trovato nel cinema il terreno privilegiato in cui rinnovare il suo tenace rapporto con il palcoscenico. Il perfezionista che sin dai primi film mima  i ruoli di tutto il set ottenendo il meglio dagli esordienti e dai caratteristi, dalle adolescenti, dai bambini e dalle vecchiette, diventa nel dopoguerra il regista che privilegia gli attori presi dalla strada, i volti scelti attraverso un lungo scrutinio di espressioni e di gesti. Il cinema non ha bisogno del grande attore ma della plasticità di un corpo in grado di stabilire una sorta di patto con la macchina di presa. La nuova incarnazione dell’attore di teatro è insomma il regista cinematografico che media tra il volto e la maschera, recita per quelli che non sanno recitare, plasma gli anonimi imponendo loro i tempi e le scansioni giuste.

SUL SET DEI CINQUANTA

Sul set degli anni cinquanta torna a interpretare un gran numero di film, diventando una delle figure più riconoscibili e popolari del cinema italiano. Nell’affollata galleria di avvocati, baroni, duchi, marchesi, conti, capitani, comandanti, maggiori, banchieri, guitti, uomini d’affari, generali, guaritori, sarti, ingegneri, arcipreti, sono frequenti le incarnazioni che strappano l’applauso come il maturo ganimede di Villa Borghese (1953), il professionista del furto con destrezza di Peccato che sia una canaglia (1954), il fine dicitore di Gran Varietà (1954), il poeta in bolletta di Il segno di Venere (1955). Sono tutti un po’ gigioni questi maturi uomini di età sempre sulla breccia, voce impostata, complimento squillante, sguardo mirato, una mano sul cuore e un’altra non si sa dove, come il maresciallo Carotenuto di Pane, amore e fantasia (1953), Pane, amore e gelosia (1954), Pane, amore e… (1955), singolare raffigurazione tra caricatura e complicità del gallismo maschilista e dell’esuberanza meridionale.

Pane, amore e fantasia

Nel corso dello stesso decennio i titoli più significativi sono L’oro di Napoli (1954) e Il generale Della Rovere (1959). L’episodio del conte giocatore è implacabile nel raccontare il parossismo del gioco. De Sica sprofonda nell’ossessione maniacale, ma non sopporta di essere visto, non resiste allo sguardo del bambino che è esemplarmente lo sguardo del regista. Il generale Della Rovere traccia l’indimenticabile ritratto di uno sciacallo che recita sempre anche quando si autocommisera. La rivelazione al comando tedesco, il suo smascheramento davanti a tutti i truffati avviene come se fossero le prove di una messinscena, mentre nel teatrino della commedia all’italiana risuonano i cupi rintocchi del dramma.

L’INCONTRO CON EDUARDO

Se al gioco – il demone di una vita – l’uomo De Sica continua a perdere, il regista ottiene gli incassi più alti del cinema italiano con il diseguale Ieri oggi domani (1963) e il bellissimo Matrimonio all’italiana (1964), da Eduardo De Filippo, due film per Sophia Loren dopo il trionfo di La ciociara (1960). La logica dello star-system, della committenza più divistica che industriale, tende a risucchiare un autore che da Caccia alla volpe (1966) a Il viaggio (1974) sembra non saper scegliere, teme di aver smarrito il cuore semplice delle cose, pur ritrovando a tratti il talento narrativo e la passione morale delle grandi occasioni. Si riconosce più che mai nel ruolo del professionista esigente, instancabile, è sempre lo straordinario direttore di attori che prima dell’inizio di ogni film legge la sceneggiatura agli interpreti, rifacendo tutte le parti, mimando, recitando, cantando, ballando, dando a tutti un carattere particolare, un’intonazione, un colore.

Matrimonio all’italiana

Vittorio non smette mai di conquistare il pubblico con la civetteria dell’uomo di spettacolo in cui affiorano i ricordi del palcoscenico, gli aneddoti della carriera cinematografica, l’amarezza del regista di capolavori amati in tutto il mondo a cui non si consente di fare il “suo film”. Si concede al piccolo schermo, entra nel video di casa, fa l’ospite d’onore a Lascia o raddoppia? e a Studio Uno, legge una poesia di Salvatore Di Giacomo, canta con Mina Che piacer nel mister, intona con un filo di voce Parlami d’amore, Mariù. Può permettersi perfino di guardare in macchina, non ha bisogno di fare qualcosa, non deve dimostrare nulla, si limita a essere lì, a essere De Sica.

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