Old Boy, il primo tassello di un domino. Il manifesto della cinematografia coreana in grado di elevare il cinema di genere a prodotto d’autore

by Giuseppe Procino

Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo.

Era il 2005 e nelle sale italiane approdava, con due anni di ritardo, accompagnato dalla pesante didascalia “Quentin Tarantino presenta” che anticipava il trailer e campeggiava sul manifesto quasi come elemento fondamentale della pellicola, “Old Boy”. Erano gli ultimi scampoli di un’epoca in cui si cercava di attirare pubblico in sala facendo leva su elementi di richiamo spesso completamente irrilevanti.

Chi non ricorda “La tigre e il dragone” arrivato nelle sale direttamente ‘dagli autori delle coreografie di “Matrix”’, con una comunicazione quindi che finiva per affossare, a livello mediatico, almeno sul nostro territorio, l’importanza della regia di Ang Lee? Così “Old Boy” per molti era un film ‘prodotto da Tarantino’ mentre in realtà il merito del regista americano era stato quello di premiare la pellicola di Park Chan-wook con il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2004. Accanto al pur importantissimo e meritato premio arrivava l’eco della critica che, all’unisono, urlava al capolavoro. Quella didascalia di presentazione permetteva però al film coreano di assicurarsi la curiosità di un pubblico nuovo che avrebbe poi innescato un meccanismo virtuoso di visione.

Old Boy era il primo tassello di un domino. Innanzitutto, il film coreano si inseriva all’interno di una ‘trilogia sulla vendetta’ che avrebbe visto uscire nelle sale italiane, nel 2005, a distanza di pochissimo tempo, sia “Old boy” (2003) sia “Lady Vendetta” (2005), rispettivamente secondo e terzo capitolo della saga. Per il primo capitolo, “Mr. Vendetta” (2002), compariva sul mercato un Dvd di qualità abbastanza discutibile che però nulla toglieva alla potenza cupa e angosciante del film. Come gli altri due episodi della trilogia, Old Boy è una pellicola in grado di camminare a testa alta e in maniera indipendente rispetto ai suoi due ‘fratelli’, ma per comprendere appieno l’intuito e il genio di Park Chan-wook è necessario approcciarsi all’intero progetto, se non altro per seguire il percorso della maturazione dell’estetica del regista, che, senza alcun dubbio, merita il riconoscimento quale ‘autore’. Partendo appunto da ‘Old Boy’ la cifra stilistica del geniale regista coreano diffondeva una nuova estetica dell’immagine fatta di inquadrature spesso oblique e libere da qualsiasi convenzione.

Il presupposto della trilogia è l’intenzione che non è distante da quel cinema che omaggia e santifica, divenuto prerogativa caratterizzante di Tarantino, il nostro paese tuttavia non aveva all’epoca i mezzi e le conoscenze per poter cogliere i riferimenti alla cultura cinematografica orientale di cui l’intera trilogia era colma.

Nella trilogia convivono infatti, oltre alla sceneggiatura tratta dal manga omonimo, gli omaggi ad esempio al maestro Kim Ki-young, reincarnato nel grottesco spinto agli estremi di alcune sequenze, ma anche negli atti sessuali carichi di una conturbante intensità drammatica, laddove non si rintracci anche il cinema giapponese del Pinku eiga o, meglio ancora, del ‘Prison Movie’ al femminile.

Il cinema orientale contemporaneo era arrivato a noi attraverso il J-horror o i grandi autori, comunque sempre e solo circoscritto alle pellicole in lingua cinese e giapponese. Certo, c’era Kim Ki-Duk, che rappresentava comunque un sasso nello stagno, poi il tentativo di distribuire “Two Sisters” che già era sembrato un miracolo, ma anche quel capolavoro – sempre di Kim Ji-Woon – che è Bittersweet Life. L’uscita di Kill Bill, infine, omaggio quasi totale alla cultura orientale, aveva innescato tra i cinefili più accaniti una ricerca disperatissima delle fonti di ispirazione del capolavoro tarantiniano. Con non poche difficoltà, in un’epoca senza Amazon, con una linea internet non così evoluta, c’era chi aveva avuto la fortuna di intercettare una delle poche (costosissime!) copie distribuite dalla Dynamics del dvd di “Lady Snowblood”, o chi invece lo aveva acquistato dall’estero davvero a pochi spiccioli e spesso senza sottotitoli.

Con il successo di “Old Boy”, arrivava in Italia quindi anche l’interesse per una cinematografia orientale inedita eppure ben solida e radicata nella storia culturale di un popolo. Il cinema coreano ampliava così la propria platea, usciva dalle logiche esclusive dei festival e dei cineforum infrasettimanali.

“Old Boy” rappresentava il cavallo di Troia per eccellenza, capace di scardinare i pregiudizi legati alla cinematografia orientale e soprattutto era in grado di colpire chiunque lo avesse visto poiché fondato su una macchina scenica intrigante, serrata e devastante. La maestria infatti con cui il regista coreano riusciva a condensare in quasi due ore la tragedia di Taesu, protagonista del manga di Garon Tsuchiya (inedito sul nostro territorio all’uscita della pellicola) era qualcosa di stupefacente. 116 minuti in cui convivono magistralmente estetica e struttura narrativa, tensione e teatro dell’assurdo, quasi una lezione di cinema a tutto tondo, un equilibrio stabile e contraddittorio al contempo che innescava un cortocircuito emotivo.

Laddove Taesu urlava al mondo la sua sete di vendetta, Park Chan Wook invece cinematograficamente ‘urlava’ l’esistenza di un altro modo di fare cinema, una poetica autoriale fuori da ogni schema. La storia del protagonista, rinchiuso per quindici anni in una stanza, senza conoscere il perché di questa punizione, era in grado di incollare allo schermo, quasi ipnotizzando lo spettatore e lasciandogli percepire la claustrofobia, l’ansia, il senso di spaesamento del protagonista. Poi, gli ultimi venti minuti della pellicola, in cui si concatenavano colpi di scena spiazzanti ma incastrati alla perfezione, consacravano uno script solido, avvincente e spiazzante.

Il film di Park Chan-wook era un giro sulle montagne russe ma con gli occhi bendati, una perenne concatenazione di salite e discese nell’attesa della montagna più alta da cui lo spettatore veniva lanciato in caduta libera. ‘Old Boy’ non è solo un film cult, fortunato epilogo di un processo di svelamento di un cinema altrimenti invisibile, ma è storia dell’arte, lezione sublime di cosa il cinema può essere. Old Boy è stata una vera rivoluzione, un manifesto di una cinematografia in grado di elevare il cinema di genere a prodotto d’autore.

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