Quando nasce Hollywood

by Orio Caldiron

Hollywood ha sempre saputo raccontarsi. Non solo con la straordinaria capacità di autorappresentazione del cinema che mette in scena se stesso, ma anche con la disponibilità narrativa, se non proprio con l’attitudine romanzesca degli innumerevoli protagonisti che hanno raccontato la loro storia. Scritto a più mani dai registi, dai divi, dai produttori, dai tecnici, il romanzo di Hollywood è un grande universo di storie, un crocevia di biografie parallele in cui le pratiche professionali del set e l’aneddo­tica quotidiana del far cinema s’intrecciano con le vicen­de dell’industria cinematografica e della società americana.

Se sfogliamo le memorie di Lillian Gish, Mary Pickford, Pola Negri, Gloria Swanson, Douglas Fairbanks, Raoul Walsh, King Vidor, Frank Capra, Charlie Chaplin, Adolph Zukor, ci troviamo subito immersi nella grande avventura del cinema americano avviata con i primi studi californiani inaugurati il 27 ottobre 1911 all’incrocio tra Sunset Boulevard e Gover Street, che sono all’origine della realtà e del mito di Hollywood. Nel decennio che va dalla fine della prima guerra mondiale al venerdì nero di Wall Street, l’irrequieta vitalità del cinema degli inizi si è venuta progressivamente componendo nelle strutture organizzative delle grandi case come la Paramount, la Fox, la Metro Goldwyn Mayer, la Warner, l’Universal, la Colum­bia, l’United Artists, destinate a diventare altrettanti mar­chi di fabbrica del sistema hollywoodiano.

NELLA FABBRICA DEL CINEMA

Naturalmente David Wark Griffith, Thomas Harper Ince, Mack Sennett, i padri fondatori dello spettacolo cine­matografico, non sono stati invano. Chi vuole imparare, parte da loro, magari vedendone i film al cinema con il cronometro in mano per contare gli stacchi, misurare i tempi delle sequenze, carpire i ritmi del racconto. Così dice di aver fatto Vidor prima di intraprendere con la mo­glie Florence il viaggio dal Texas a Hollywood, dove cer­cherà di lavorare con Ince. Straordinario viaggio di nozze, insieme iniziazione e apprendistato, compiuto su una Ford modello T – migliaia e migliaia di chilometri passando per Amarillo, Trinidad, Colorado Springs, Carson City, Lake Tahoe, Sacramento e San Francisco – durante il quale non smette di fare riprese che invia alla Ford. Negli stessi anni in cui Vidor va verso Hollywood facendo i sopralluoghi per un cinema che nasce a ridosso della realtà, Walsh sul treno diretto a El Paso sta leggendo un libro su Pancho Villa. Glielo ha dato Griffith mandan­dolo a girare un film sul rivoluzionario messicano, che per cinquecento dollari in oro ha concesso alla Mutual l’esclu­siva delle imprese ancora da compiere. Fedele alla realtà della finzione, non esiterà a far rifare a Pancho Villa il suo ingresso trionfale a Città del Messico perché quello vero non era venuto bene. Quando nel 1924 Capra entra nello studio di Mack Sennett a Edendale siamo già alla conclusione della glorio­sa parabola creativa del re della comicità. Il futuro regista si trova di fronte a un caos di baracche, uffici, i laboratori e teatri ammassati disordinatamente sul fianco della collina di Santa Monica. Ma se la costruzione è fatiscente, la disci­plina è ferrea. Il viaggio dentro la fabbrica del cinema diventa scontro con i percorsi obbligati, confronto quoti­diano con le regole, trasmissione di esperienze e di tecniche, tirocinio artigianale incentrato sull’individualità crea­tiva di un re sia pure al tramonto.

Nel corso degli anni venti il passaggio dall’artigianato alla grande industria cinematografica verrà modificando sempre più sensibilmente i meccanismi produttivi. La stra­tegia omologante dello Studio System – in cui chi ha in mano la produzione controlla anche distribuzione e eserci­zio, nello stesso momento in cui produce con criteri di rigi­da programmazione, divisione gerarchica dei ruoli, codifica­zione dei generi, sfruttamento divistico del parco attori – conoscerà il suo apogeo tra la fine del muto e il secondo dopoguerra, negli anni trenta e quaranta, per entrare in crisi soltanto negli anni sessanta. La macchina hollywoodiana raggiunge il massimo della popolarità e dell’influenza, riu­scendo a conquistare in modo irreversibile il pubblico ame­ricano e internazionale, imponendo miti di consolazione e modelli di comportamento a tutto il mondo. Il grande interesse che, sullo sfondo della più generale riscoperta del muto, c’è oggi per il cinema americano degli anni dieci e venti, nasce anche dal fatto che è un cinema prima della omologazione. Il processo formativo del mo­dello di produzione di lì a poco prevalente è ancora in corso e si intreccia con le fertili tensioni di un’epoca con­traddittoria delle comunicazioni di massa, in cui il cinema registra i grandi cambiamenti del costume, ma sembra incapace di scegliere, riluttante a schierarsi. Il salotto vitto­riano sopravvive accanto alle immagini del nuovo, la ricer­ca delle radici dell’epopea nazionale non esclude il richia­mo delle suggestioni europee, l’efficacia narrativa del cine­ma di genere non smentisce lo scavo appassionato degli autori più personali e irrequieti.

Non è meno ambivalente l’atteggiamento nei confronti degli stranieri, chiamati a lavorare negli studios in forza di un processo di assimilazione che sembra proporsi di sop­primere le distanze anche quando è teso a impadronirsi delle diversità. Il trapianto di decine e decine di registi, atto­ri, sceneggiatori e tecnici dall’Europa agli Stati Uniti, un intrecciato mosaico che continuerà anche nei decenni suc­cessivi, incide profondamente nella storia del cinema ame­ricano del primo trentennio del secolo, una storia fatta di stratificazioni e di contaminazioni non sempre facilmente districabili. Non è certo il caso di ripercorrere il lungo viaggio dell’emigrazio­ne europea che si avvia sin dal 1884 quando giunge negli States il tedesco Carl Laemmle, destinato a diventare sin dagli anni dieci uno dei grandi proprietari di circuiti cine­matografici prima di fondare la Universal e produrre i film di Erich von Stroheim da Mariti ciechi (1918) a Femmine folli (1922). Nel 1889 è la volta dell’ungherese Adolph Zukor che, dopo il successo dei nickelodeons, dà vita alla Famous Players da cui nascerà la Paramount. Nel 1890 arriva William Fox, anch’egli ungherese e uno dei pionieri del cinema americano che si batte per la conquista dei nuovi mercati fino a svolgere un ruolo di primo piano nella produzione. Nel 1909 dalla Germania emigra Louis B. Mayer che diventa uno degli esercenti più importanti prima di creare la Metro e poi la Metro Goldwyn Mayer. Samuel Goldwyn, che viene da Varsavia, arriva negli Stati Uniti via Canada sin dal 1898 e si afferma anche lui nell’e­sercizio prima di dare vita con Jesse Lasky alla Famous Players-Lasky e diventare uno dei più autorevoli tra i pro­duttori indipendenti.

LE ONDATE DELLE GRANDI EMIGRAZIONI

Il contributo maggiore è probabilmente quello tedesco con Erich von Stroheim negli States sin dal 1909. Ernst Lubitsch dal 1922. Ewald A. Dupont, Paul Leni, Friedrich W. Murnau, Edgard G. Ulmer dal 1927. Josef von Sternberg, austriaco di origini ungaro-polacche, ritorna negli States nel 1923, ma c’era stato a lungo anche prima fin dal­l’età di sette anni. Lo svizzero-tedesco Emil Jannings va in America nel 1927. Dalla Svezia vengono nel 1923 Victor Sjöström e nel 1925 Mauritz Stiller con Greta Garbo. Non mancano i francesi con Maurice Tourner nel 1914, Max Linder nel 1920, Robert Florey nel 1921. Gli italiani con Frank Capra dal 1903, Rodolfo Valentino dal 1914. Gli ungheresi Paul Fejós e Michael Curtiz rispettivamente nel 1923 e nel 1926. La polacca Pola Negri e l’armeno Rouben Mamoulian nel 1923.

Charlie Chaplin lascia l’Inghilterra nel 1912, il suo connazionale Ronald Colman nel 1923. Nel giro di qualche anno tedeschi, austriaci, scandinavi, ungheresi, francesi, polacchi diventano solo per breve tempo o per sempre americani. Ma quanto delle loro esperienze europee – volta a volta esperienze umane, culturali, politiche, artistiche, tecniche prima ancora che cinematografiche – va a finire nel crogiuolo in formazione del cinema americano? Naturalmente diverso è il significa­to della seconda, grande emigrazione, quella delle centinaia di artisti e di tecnici in fuga dal nazismo che, attraverso per­corsi tortuosi e soste obbligate, approdano a Hollywood dai primi anni trenta al 1940. Il nodo centrale è quello del rapporto affollato e con­traddittorio, storico e attualissimo, tra cinema europeo e cinema americano, tra creatività e studios hollywoodiani, tra esperienza e innocenza.

Se i cineasti europei vanno tal­volta in America con la sensazione di intraprendere un viaggio di esplorazione in un’oscura parte della terra, quando poi sono in grado di confrontare i modi di produ­zione americani con quelli europei condividono la considerazione di Lubitsch per il quale il grande vantaggio del cinema americano sta negli inauditi mezzi tecnici, nell’impareggiabile sistema degli impianti di illu­minazione e nel lavoro dei laboratori: «In America, l’organizzazione è di fatto più rigida e più affiatata e soprattutto volta a alleggerire il lavoro del regista. Prima di iniziare le riprese di un film ogni elemen­to viene elaborato fino al minimo dettaglio: è quasi impos­sibile che durante la lavorazione intervenga, inaspettata­mente, un qualsiasi inconveniente. L’organizzazione cinematografica americana è soprattutto capace di annien­tare il subdolo dio del caos, cosicché tutto può procedere da sè, com’è stato programmato e com’è stato preventiva­mente stabilito». Il grande Murnau auspica che il regista dell’avvenire, liberatosi di tutti i condizionamenti letterari e teatrali, usi la macchina da presa come una penna, ma si chiede anche come il paladino dell’arte cinematografica sarà accolto a Hollywood: «Quando questo poeta del cinema giungerà a Hollywood, alla stazione non sarà accolto con musica e fiori. Vivrà tempi difficili prima di persuadere i dirigenti degli studios, e prove ancora più ardue lo attendono per persuadere i registi che ha da offrire qualcosa di nuovo, degno del loro tempo. Questo è naturale, da sempre gli uomini hanno paura delle innovazioni. Ma se decide di aprirsi una strada negli studios cinematografici, troverà finalmente chi lo ascolti. E da questo momento in poi i film cambieranno volto a tal punto che forse avremo diffi­coltà a riconoscere in loro le goffaggini di cui oggi siamo capaci».

IL FUTURO VIENE DAL PASSATO?

Confrontarsi con il cinema hollywoodiano dai venti ai quaranta può significare cogliere alle origini un modello che con l’avvento del sonoro diventa il punto di riferimen­to obbligato per il pubblico di tutto il mondo, andare alle fonti della mitologia del cinema americano così come si è configurata nel corso di più generazioni di spettatori. Si può propendere per l’archeologia o indulgere alla nostalgia – capita nelle testimonianze e negli studi sul pianeta hol­lywoodiano come in altri casi – ma si può anche guardare in avanti, rifare un percorso a suo modo esemplare dell’immaginario di massa per verificare quanto ci riguardi. Per ripensare, in rapporto al nostro contesto di spettatori di oggi, ai film dei maestri consacrati e degli artigiani da riscoprire. Per riproporci i problemi della standardizzazione e della differenziazione dei prodot­ti, dei rapporti con le regole produttive e con i percorsi dei generi, delle funzioni e delle strategie della produzione, del mercato della serialità, anche di quella televisiva, a cui il cinema americano degli inizi si imparenta più di quanto non si voglia ammettere. Nel cinema americano come nella serialità televisiva è fondamentale il rapporto con la realtà che non esclude naturalmente lo spettacolo, l’affabulazione. «Un albero è un albero», diceva Vidor, «che bisogno c’è di ricorrere ad un albero finto?». Il successo enorme dei telefilm e delle soap-opera non è soltanto un fenomeno di colonizzazione cul­turale, come spesso si dice. Strutture complesse della standardizzazione narrativa, i serial americani di oggi raccontano vicende assurde e sgangherate, ma lo fanno in uno scena­rio realistico. Nel conto dei subdoli mec­canismi della serialità statunitense conviene mettere sin d’ora almeno l’albero di Vidor.

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