Quanti Pinocchio ci sono?

by Orio Caldiron

Quanti Pinocchi ci sono? Un’infinità se si contano gli apocrifi che hanno cominciato a uscire solo pochi anni dopo il fatale 1883, quando Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi arriva in libreria.

Non si contano i libri dedicati ai figli, ai fratelli, alle sorelle, ai cugini, alla nonna del celebre burattino. Sin dall’inizio del Novecento viene mandato in Africa, anzi in Affrica, dove naturalmente ritornerà negli anni dell’impero, ma nel frattempo va in automobile, in aereoplano, in dirigibile, a caccia, in fondo al mare, diventa esploratore, gentleman, alpinista, magistrato, corridore, fidanzato, palombaro, giornalista, geografo, prestigiatore, va al Polo Nord, in Egitto, a Rodi, a Tripoli, sulla Luna, all’altro mondo. Partecipa alla grande guerra, anche se quanto a statura è sotto standard.

Negli anni venti è innamorato, messo sotto spirito, poliziotto, sciatore, boxeur, fascista, ciclista, corsaro, astronomo, ferroviere, viveur, balilla, continua a viaggiare nel Celeste Impero, a Ceylon, in Siberia, ma anche all’Inferno e in Purgatorio.

Non si arresta neppure negli anni trenta, domatore, inventore, pasticcere, caposquadra, emulo dell’Ebreo Errante, va su e giù per i mondi, tra i selvaggi, diventa istruttore del Negus, e tenta di calzare gli Abissini. Nel dopoguerra fa il politico fino a partecipare alla campagna elettorale della Dc, partecipa alle millemiglia, si lancia nel primo viaggio interplanetario. Nessuno riesce a fermarlo, se negli anni settanta ha ancora energie per apparire in una decina di album a fumetti come corriere dello zar, camicia rossa, olandese volante, in grado di affrontare Mangiafuoco, Peter Pan, la regina Anter, il mago Temporius.

La tentazione di rifare Pinocchio parte da lontano. Dagli stessi illustratori che sin dall’inizio accompagnano con i loro disegni – inventivi, estrosi, stravaganti, talvolta geniali, spesso qualsiasi – il testo di Collodi, attribuendo volto e corpo al protagonista e alla folla di personaggi che spuntano a ogni pagina del libro destinato all’inarrestabile successo che sappiamo.

Qualche nome? Il primo che mi viene in mente è Benito Jacovitti, che si è cimentato a più riprese con il personaggio. Non dirò che il maestro abruzzese, abituato a debordare fuori dalla pagina con la sua inconfondibile tendenza all’accumulo, qui si comporti diversamente intimorito dinanzi a un classico della letteratura. Jacovitti affronta con grande lucidità il rapporto con il temibile longseller, senza mai rinunciare a essere se stesso. Si abbandona al gioco pirotecnico della frenetica carnevalizzazione, allo scatenamento delle traiettorie visive, che sembrano imprimere alla tavola la scalpitante immediatezza del movimento.

Jacovitti

Non guarda solo al passato ma al futuro, agli anni in cui il personaggio diventa mito fino a delineare una sorta di esilarante paesaggio antropologico italiano in cerca d’identità, dove si moltiplicano le allusioni e le strizzate d’occhio, i guizzi provocatori e le scandalose effrazioni. Su registri completamente differenti trovo straordinario il lavoro Lorenzo Mattotti, il grande disegnatore-autore degli anni novanta, che ci regala una lettura grafica assolutamente originale, tutta sbilanciata verso i toni notturni, misteriosi, sciamanici. Una lettura per immagini che entra fino in fondo nel tessuto narrativo del testo per proporre con la forza dello stile un’interpretazione tendenziosa e struggente. Quella che più si avvicina all’insolente grandezza del personaggio così come l’ha visto Giorgio Manganelli nel suo bellissimo “libro parallelo”, al briccone divino che sta sulla soglia tra i vivi e i morti, tra il sogno e la realtà, ludico e magico, il Grande Disubbidiente sospeso fra utopia e destino.

Luzzati

Come dimenticare Lele Luzzati? Basta l’immagine della carovana guidata dall’Omino di Burro piena di bambini impazienti per apprezzare la forza della composizione in cui la struttura geometrica è al servizio del colore che domina con le sue sorprendenti iridescenze, altrettante suggestioni del grande inganno. Nel caos da luna park del Paese dei Balocchi si avverte lo stupore di chi si accorge che il gioco libero, chiassoso, scatenato sta scivolando verso l’automatismo. Sarebbe sbagliato pensare che l’arista genovese sappia cogliere soltanto la festa e il gioco, portando tutto dalla sua parte il libro di Collodi, senza fare attenzione ai rintocchi cupi, funebri, fantasmatici di un testo complesso. Bastano alcune apparizioni della fata, la Signora degli Animali, la Regina delle Metamorfosi con il corteo dei suoi servi per introdurci subito dall’altra parte dello specchio, nel mondo inquietante dei segreti e far vibrare la corda di un’improvvisa accensione saturnina.

Se il disegno sembra così congeniale nel riproporre il mondo del grande burattino, forse il cinema d’animazione può vantare una marcia in più nei confronti del film dal vero.

Il Pinocchio (1939) di Walt Disney è a questo proposito un tentativo particolarmente ambizioso, che si è imposto nel corso delle stagioni come uno dei capolavori applauditi da più di una generazione di spettatori. Poco importa che sia ambientato in Svizzera in un paesino tra le montagne, che l’abitazione di Geppetto sia piena di orologi a cucù e di altri rumorosi giocattoli animati, che le avventure del burattino siano sforbiciate senza pietà. La trovata di fare del Grillo Parlante il narratore è felicissima, perde quasi subito il sottotesto pedagogico per guadagnare in complicità, diventando la guida necessaria in una storia di iniziazione. Il ritmo vivacissimo a cui si muovono i personaggi è quello del musical che negli anni trenta si è già imposto come uno dei linguaggi più efficaci e universali del cinema hollywoodiano. Se lo spettacolo di Mangiafuoco, con la sua serie di numeri internazionali, è straordinario, il viaggio nei sottofondi marini resta un autentico pezzo di bravura.

Disney

Non si può dire che il cinema italiano l’abbia trascurato. Il primo Pinocchio risale al 1911, diretto da Giulio Antamoro per la Cines e interpretato da Polidor, il clown che anticipa il Pinocchio acrobatico e snodabile di Totò, la sua anarchica ribellione: «Siamo tutti burattini, burattini, burattini, burattini in libertà!». Nella velocità saltellante della slapstick sfilano quasi tutti i momenti topici del libro. Con la sorprendente aggiunta di alcune sequenze inventate in cui Pinocchio e Geppetto finiscono tra i pellerossa. Il burattino viene scambiato per un mago, mentre si preparano a arrostire Geppetto, fino a che non arrivano i soldati canadesi a salvarli, ammazzando tutti gli indiani. Per rimandare poi a casa Pinocchio a cavallo di una palla di cannone come nelle imprese del Barone di Münchausen. Ma l’aspetto più singolare dell’antico prototipo è il gusto avanguardistico con cui si mette in scena e insieme si svela la finzione, rappresentando tutti gli animali con grotteschi mascheroni e stravaganti abiti di scena.

Il grande film italiano di Pinocchio è quello realizzato nel 1972 da Luigi Comencini per la tv in cinque puntate, che hanno consentito i tempi distesi della favola audiovisiva. Lo stesso regista ne ha ricavato una versione cinematografica di poco più di due ore che taglia drasticamente molti episodi e perde qualcosa anche sul piano del ritmo. Ma Le avventure di Pinocchio è comunque un capolavoro, in cui la tradizione del neorealismo e la vivacità della commedia all’italiana s’incontrano in un grande, arioso affresco. L’aspetto più significativo è il paesaggio della Toscana contadina abbandonata a se stessa, sbattuta dal vento, inseguita dalla miseria, morsa dalla fame. L’attenzione al mondo infantile tipica di Comencini si risolve nello sguardo partecipe con cui l’autore segue il protagonista sempre di corsa. Fino alla fine, quando sfugge dal ventre del pescecane e, divenuto padre del padre, corre con lui sulla spiaggia nell’alba di un nuovo giorno.

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