Roma città aperta e la trilogia antifascista di Roberto Rossellini

by Daniela Tonti

Roma città aperta è nato dall’intrecciarsi di molte storie che gli sceneggiatori avevano raccolto da varie parti. Come la vicenda di Don Pietro Pappagallo che fabbricava documenti falsi per i perseguitati politici e quella di Giuseppe Morosini che dall’ottobre del 1943 assisteva quanti erano nascosti nella zona di Monte Mario collaborando con i partigiani.

Arrestato all’inizio del 1944 rinchiuso prima in via Tasso, poi a Regina Coeli, viene fucilato il 3 aprile a Forte Bravetta.

L’episodio della morte di Anna Magnani prende spunto dalla vicenda di Teresa Gullace, la donna falciata il 2 marzo da una raffica di mitra di un soldato tedesco mentre protesta, durante i giorni della resistenza romana, davanti alla caserma dell’Ottantunesimo Fanteria in via Giulio Cesare perché liberino suo marito renitente alla leva.

Le riprese iniziano la notte tra il 17 e il 18 gennaio nell’ex sala corse di via degli Avignonesi, sede degli stabilimenti Capitani, dove vengono ricostruiti il comando della Gestapo e la camera di don Pietro. Gli altri interni e esterni saranno girati in piazza di Spagna, in via Montecuccoli, nella Chiesta di Sant’Elena in via Casilina, nella chiesa di Santa Maria dell’Orto in Trastevere, alla circonvallazione Casilina, al ponte Tiburtino al Forte Bravetta e in via Trionfale.

Quando la Magnani entra nel film il lungo lavoro di preparazione – iniziato fin dal giugno 1944 – è solo in parte concluso ma non certo sono finite le disavventure economiche che tra interruzioni e riprese proseguiranno fino alla fine, alimentando una ricca e fantasiosa anedottica.

Quando andai da lei a sottoporle il copione di “Roma città aperta” lei mi disse e me lo ricordo come se fosse ieri ‘E’ la storia più bella che io abbia mai letto e che abbia mai visto’. Se devo essere sincero, quella di Anna Magnani era una sensazione che né io né Rossellini avevamo allora.

Sergio Amidei

Il personaggio di Pina era stato disegnato e concepito per la Magnani ma i produttori decisero di affidarlo a Clara Calamai (all’epoca fortissima per la fama di Ossessione) per quello che Anna Magnani stessa definì in seguito “un puntiglio”. All’epoca la Magnani lavorava al teatro di rivista e aveva un grosso successo, esattamente come Aldo Fabrizi. I produttori non vollero accordarle la stessa cifra di Fabrizi e per una questione di principio la Magnani rifiutò la parte. Dopo dieci giorni con la Calamai tornarono a cercarla e raggiunsero l’accordo.

L’inizio della sua fortuna sullo schermo comincia con una scena di morte, una specie di catarsi di un’epoca, culmine drammatico di Roma città aperta, sofferta epopea dell’occupazione nazista a Roma. Mentre urlando “Francesco, Francesco!” insegue, come una furia scatenata il camion dei tedeschi che porta via il compagno, viene falciata da una raffica di mitra. Una morte assurda, pura rappresaglia gratuita e doppio omicidio perché è incinta. La corsa disperata e la caduta chiudono la prima parte del film. Il personaggio della sora Pina, non più giovanissima, vedova con il figlio adolescente Marcello, ingoffita dall’evidente gravidanza, dalla sporta vuota sempre appesa al braccio, segno della ricerca di cibo, generosa, volitiva, pronta al battibecco fa toccare all’attrice una vasta gamma di sentimenti e di espressioni. La sua interpretazione partecipe, sommessa, urlata, disperata diventa il simbolo in un momento irripetibile del cinema italiano.

Come il suo lungo monologo mentre cammina al fianco di don Pietro, un esame di coscienza ad alta voce, una confessione che sembra non voler rimandare. Le recriminazioni di una donna vissuta onestamente ma bollata dalla Chiesa perché ha amato fuori dal matrimonio. Pina incarna la condizione femminile fatta più di difficoltà che di certezze, più di doveri che di diritti, più di rinunce che di soddisfazioni. A lei si contrappongono le figure femminili della sorella Lauretta, di Marina, della tedesca Ingrid. Tutte e tre dominate da impulsi distruttivi verso se stesse e verso gli altri. Capaci solo di tradmenti estremi, figure nere, stordite dall’odio: l’opposto di Pina.

Girato senza sonoro perché non c’è la presa diretta e sia perché gli attori non sono professionisti e i dialoghi sono ridotti all’essenziale. Nonostante il regista si sia sempre lamentato dell’insuccesso di Roma città aperta, quando subito dopo l’anteprima del Quirino esce nelle sale conquista il primo posto nella classifica degli incassi dei film italiani della stagione mentre il mercato è inondato dalle pellicole americane assenti da tempo.

Il film offre esempi eccellenti della poetica e del nuovo stile di Roberto Rossellini primo fra tutti l’autenticità cioè la capacità di dare della realtà una dimensione così vera che inutilmente la si cercherebbe in  un documentario. L’autenticità non nasce solo dagli ambienti realistici, dalla recitazione non professionale, dall’aderenze degli attori ai personaggi ma anche dal fatto che la realtà pare nasca sullo schemro.

Roma città aperta impose Rossellini all’attenzione della critica e del pubblico, soprattutto quello straniero, proprio per la “violenza” delle sue immagini e del tono dimesso, documentaristico che contarstava con tutto ciò che era la tradizione del cinema hollywoodiano. È a proposito di questo film che si parlò di neorealismo e la nuova etichetta fu attribuita ai film del nuovo cinema italiano da Germi a Lattuada, a Vergano, da Castellani a De Santis, da Zampa a Visconti senza andare troppo per il sottile mettendo sullo stesso piano opere e autori profondamente diversi.

Il neorealismo era in primo luogo un metodo d’indagine, un modo nuovo di guardare i fatti, gli uomini e le cose attorno a sé spingendo a una revisione di valori e a un approdofondimento sui temi. Almeno questo era il neorealismo di Roberto Rossellini che denunciava la presenza di una spiritualità più o meno sottointesa e che preannunciava una visione della società non immanente e materialistica. Il regista voleva scrutare la verità il più a lungo possibile si veda non a caso la sequenza della tortura per fare emergere un messaggio trascendente.

Un atteggiamento più profondo e amplificato nel successivo Paisà (1946) un film a episodi che racconta situazioni emblematiche che mettono in rilievo il rapporto tra il singolo e la guerra, è un susseguirsi di morti o situazioni che culuminano con rotture e morti un pessimismo di fondo fortissimo che sarà ancora più evidente nel successivo Germania anno zero (1947) che fu considerato la terza parte della trilogia antifascista. La distruzione della Germania, ridotta a un cumulo di macerie è l’anno zero non solo dei tedeschi ma degli uomini tutti. La storia di un ragazzo che vive in una famiglia disastrata e subisce il fascino di un maestro nazista che lo convince ad uccidere il padre – che è socialmente inutile – e finisce suicida sullo sfondo di una città distrutta. È la rappresentazione di una crisi morale ed esistenziale ma soprattutto della condizione umana.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.