Una vita difficile, la lezione di Andrea Panzavolta a Biumor

by redazione

Biumor tornerà a Tolentino oggi e domani. L’evento, organizzato da Popsophia in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Tolentino, si terrà in diretta dal Teatro Vaccaj e sarà trasmesso in streaming sui siti www.popsophia.comwww.biumor.com e sull’emittente èTV del digitale terrestre. Per questa edizione, dedicata al tema della stupidità, il festival indosserà nuove vesti con una formula che intende trasformare le sfide dell’attualità in un’occasione per reinventarsi, con un mix unico di linguaggi massmediali, lectio pop e spettacoli filosofico-musicali. Tantissimi gli ospiti che interverranno in collegamento video, ogni incontro sarà intervallato da momenti musicali – a cura del gruppo Factory che suonerà in presenza con l’orchestra di dieci elementi al completo – e cinematografici. Si parte oggi, dalle ore 21.30 alle 23.30, per una serata dedicata a “Cretinetti – Filosofia del cialtronismo all’italiana”. “Webeti – Filosofia della stupidità 2.0” è invece il titolo dell’appuntamento del 29 novembre.

bonculture, in attesa degli appuntamenti, anticipa l’intervento dedicato aUna vita difficiledi Dino Risi a cura del giornalista Andrea Panzavolta, autore – fra l’altro – di due volumi dedicati al rapporto fra cinema, filosofia e letteratura: “Lo spettacolo delle ombre” (2012) e “Passeggiate nomadi sul grande schermo” (2013), entrambi pubblicati da Mimesis (Milano). L’autore interverrà a Biumor sabato 28 novembre assieme a Tommaso Ariemma, Cesare Catà, Gabriele Ferraresi, Ilaria Gaspari, Salvatore Patriarca, Simonetta Sciandivasci e Marcello Veneziani.

 

Una vita difficile, di Dino Risi (Italia, 1961)

Nella cosiddetta ‘commedia all’italiana’ Talia e Melpomene, le muse che presiedono rispettivamente alla commedia e alla tragedia, si danno e si tolgono insieme. Nel teatro greco, infatti, tanto il riso quanto il thrénos sono mezzi per raggiungere la verità: il comico Socrate che, in una famosa commedia di Aristofane, pencola sospeso dentro una cesta e il tragico Edipo che si acceca con la fibbia della sua cintura sono le facce di una medesima medaglia, sono immagini potenti di un mondo il cui máthos, una superiore ‘conoscenza’ del mondo e di se stessi può essere raggiunto grazie al discorso ben ordinato, ben connesso e fondato. Medesimo è l’assunto che innerva la ‘commedia all’italiana’: qui si avverte ancora il respiro del ‘grande stile’, ancora regge la convinzione per cui la realtà può essere raccontata, indagata e compresa attraverso il potere chiarificatore della parola. Come nel teatro greco, anche qui gli autori possiedono un terzo occhio capace non solo di vedere ciò che ai più sfugge, ma anche di scorgere, in un accesso di chiaroveggenza, i segni dei tempi nascosti nella prosa piatta e uniforme in cui non di rado vivacchiano i loro personaggi.

Una vita difficile di Dino Risi è senz’altro uno dei risultati più alti raggiunti dalla ‘commedia all’italiana’ per il magistrale equilibrio tra il registro tragico e quello comico, per la raffinatezza della sceneggiatura, per la magistrale recitazione degli interpreti e soprattutto per la sua capacità di intuire il destino dell’Italia. Il film potrebbe essere l’ideale seguito di Tutti a casa: come è noto, nella splendida sequenza finale del capolavoro di Comencini Silvio Magnozzi, dopo aver provato sulla propria pelle la vergogna dell’8 settembre, nella Napoli occupata dalle truppe tedesche aiuta uno degli insorti ad azionare una mitragliatrice, diventando così, ispo facto, un partigiano. Ed è proprio nelle vesti di un partigiano che Sordi fa il suo ingresso in Una vita difficile, e tale resterà per tutto il film anche a guerra finita, soprattutto verrebbe da dire a guerra finita, quando il nemico non è più immediatamente identificabile da una divisa, ma gioca all’elusione, al nascondimento, al trasformismo. La Resistenza, infatti, deve essere combattuta «ora e sempre», perché essa non è altro che la lotta contro tutte le innumerevoli forme di odio che ogni giorno infettano la vita («Resistenza sempre incompiuta», direbbe Norberto Bobbio). Le vessazioni a cui Mangozzi è sottoposto dall’industriale che tenta di corromperlo; la spocchia intellettuale del regista che gli risponde dall’alto di un dolly quasi volesse sottolineare la distanza incolmabile tra loro due; la togata burbanza dei tre docenti universitari che, come si lascia intuire, hanno conservato il posto grazie al giuramento fascista; il fariseismo del Commendatore Bracci che lo tratta come un servo,  non sono migliori della violenza del soldato tedesco che, all’inizio del film, vuole passarlo per le armi senza alcun processo. Silvio ha compreso in pieno lo spirito della Resistenza, il quale richiede in fondo una cosa sola, che si conservi la schiena dritta contro i prepotenti di questa terra. Egli non è un idealista; più semplicemente sa cosa è giusto fare. L’acqua di selz che il Commendatore, per umiliarlo, gli spruzza addosso è il paradigma di tutte le violenze perpetrate sotto il sole, tanto che il volto bagnato di Silvio acquista gli inconfondibili tratti dell’Ecce homo. Ma la sberla con cui questi fa cadere in piscina il suo aguzzino deterge non solo quell’acqua, ma anche una buona parte della melma che insozza il mondo.

Può essere che il segreto per comprendere in pieno l’espressione ‘commedia all’italiana’ stia proprio nell’aggettivo che accompagna il sostantivo, un aggettivo che ne costituisce il lato oscuro, tragico, forse disperante. È italiana questa commedia perché dell’Italia svela impudicamente la maledizione che la soffoca, che la costringe all’interno di una placenta – fatta d’indifferenza, disprezzo, cinismo, apatia morale, lenocinio intellettuale – da cui la Resistenza ha tentato invano di farla uscire. Forse il migliore commento a questo straordinario genere cinematografico, che è nel contempo anche un’acuminata riflessione etnologica e antropologica, è stato scritto con implacabile lucidità da Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. La tesi di fondo di questo crudele pamphlet è quello secondo cui gli italiani, pur avendo rispetto alla Francia, all’Inghilterra e alla Germania una «scienza filosofica e di cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo […] incomparabilmente inferiore», nondimeno «benché parrà un paradosso, [essi] nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni», e questo perché gli italiani «sono tanto più addomesticati, e per dir così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è piuttosto opinione o sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più dell’altre nazioni». Ciò, prosegue il poeta di Recanati, arreca ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare: come la disperazione, «così […] il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e dell’immoralità». La conclusione è deprimente: «Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più varietà e persuasione intima di disprezzo e di freddezza che non fa niun’altra nazione».

In Una vita difficile più volte la macchina da presa indugia su questo riso osceno, impudico, disperato. Ride il ricco industriale mentre tenta, a suon di milioni, di persuadere Silvio a non pubblicare il suo nome nella lista di coloro che hanno trafugato all’estero ingenti somme di denaro; ride il collega di Silvio, Franco Simonini, quando gli racconta di non essere stato arrestato dalla polizia durante le sommosse scoppiate dopo l’attentato a Togliatti perché era andato a prendere un cappuccino; ride il Commendatore Bracci quando a più riprese lo umilia. Vi è nel loro riso qualcosa di sconcio e di immorale, di antico e di inesorabile; di più: vi è appunto la consapevolezza, come ha intuito Leopardi, di aver toccato l’estremo limite non già della filosofia, ma della pratica filosofica, come rivela in modo eloquente la scenetta in cui Silvio, ubriaco, chiede a un pastore se sia felice e si sente rispondere «Ma va’ a morì acciso, ‘mbriaco». Ancora filosofica è la domanda posta da Silvio (in essa sembra vibrare la Stimmung del grande canto alla luna del leopardiano pastore errante dell’Asia); ma affatto «circospetta, indifferente, insensibile, […] la più ragionatrice nell’operare e nella condotta» è la replica del pastore, il quale è così brutalmente spogliato di quell’aura di incorrotta innocenza che una lunga tradizione da sempre gli riconosce.

L’Italia del boom economico è anche l’Italia dove si stanno incistando contraddizioni non risolte, tradimenti ai danni della Resistenza, viltà, servilismi, doppiezze furbesche. «Siete turisti? Cosa venite a fare qui? Non c’è niente da vedere, è tutto uno schifo… Non visitate l’Italia! Statevene a casa vostra, che è meglio!» grida Silvio alle auto in corsa sulla litoranea di Viareggio. Nessuna di quelle automobili si arresta per prestargli soccorso quando si accascia al suolo: chiara metafora di un Paese che sta procedendo ad alta velocità senza curarsi di chi non riesce a sollevarsi da terra.

Silvio, come si accennava, alla fine del film omaggia i valori resistenziali dando un ceffone al suo oppressore. Lo vediamo allontanarsi con sua moglie Elena tra gli sguardi esterrefatti degli ospiti illustri del Commendatore; come al termine di una tragedia (o di una commedia) greca ci sentiamo kathároi, ‘purificati’. Sarebbe tuttavia sufficiente considerare gli sviluppi della ‘commedia all’italiana’ per accorgersi di quanto effimera e illusoria sia questa kátharsis: i partigiani Antonio e Nicola di C’eravamo tanti amati o il deputato comunista de La terrazza, per ricordare i due film che senz’altro segnano gli approdi estremi di questo genere cinematografico, sono personaggi che paiono uscire da L’educazione sentimentale, il romanzo di tutti i disincanti.

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