Dogman, il film di Garrone che ha sbancato ai David

by Marco Pezzella

Dogman è un film duro e complesso.

Per alcuni è il film capolavoro di Matteo Garrone, per tutti è una bella pellicola. Oggi possiamo affermarlo ancora più tenacemente visto che ha sbancato ai David di Donatello 2019, meritatamente.

I premi non sono necessariamente indicatori di qualità, certo, l’Academy ce lo insegna, ma per Dogman dobbiamo fare, tutti, un’eccezione.

Facciamo un passo indietro.

C’è un regista, probabilmente a casa sua o seduto al tavolino di un bar mentre sorseggia un caffè, apre il giornale e legge un articolo: quello del famoso canaro romano. Il caffè si rovescia sul tavolino, il regista si alza dal divano, o dalla sedia del tavolino cui è seduto e pensa “cazzo che storia!”.

Quello stesso giorno, con solo qualche ora di scarto chiama Ugo Chiti e Massimo Gaudioso ed iniziano a scrivere un film.

“Dai, Mattè ma è na follia, lo vedi il cinema italiano come sta?!”

“No, scriviamolo, poi ci penso io. C’ho il titolo, Dogman!”

Mi piace immaginare che sia andata così. Preciso che è tutto inventato da me e da qualche bicchiere di birra.

Dogman è un film che parla di periferia e di rivincite sociali e personalissime; come le fragilità, relegate in anfratti nascosti della mente, in periferie buie e dimenticate.

Dogman è un canaro tutto casa e bottega in una zona totalmente abbandonata, degradata, resa ancora più cupa dalla fotografia di Nicolaj Brüel.

Dopo “Il racconto dei racconti” Matteo Garrone abbandona la narrazione fiabesca e ritorna nella dimensione urbana per portare sullo schermo gli incubi, le paure e gli errori dei suoi protagonisti. Ricalca il concetto di cinema che aveva espresso con Reality e con Gomorra.

Matteo Garrone è forse il regista più eclettico del cinema italiano, in Dogman descrive la fragilità e il coraggio di un uomo solo, verrebbe da dire, come un cane.

Il protagonista, Marcello Fonte, interpreta egregiamente questo “losco figuro”, costantemente in contrapposizione ad un duro figuro, tosto da far paura, il risoluto Simone (Edoardo Pesce – vincitore del David come miglior attore non protagonista). Per dirla franca, questi rappresenta quel genere di individuo che se incontrato al buio ci si sente costretti a cambiare strada e perfino Marcello lo subisce.  Marcello che incarna l’unico interlocutore di questo pugile di provincia abbandonato a se stesso, alla droga e alle carezze della mamma.

Allora il dogman prova ad affrontarlo con amicizia, coraggio e con un sorriso nostalgico, inesorabilmente empatico. A parere di chi scrive, questa è la capacità di Garrone. Il regista napoletano persegue tale velleità sin dai primi film (Primo Amore, Reality e Gomorra), affascinato dagli anfratti bui in cui si rifugiano le anime nere, frammentate, brutali.

Lo spettatore è clandestinamente chiamato a schierarsi col più debole, quasi a subire egli stesso i colpi che a quest’ultimo vengono inferti, tanto è reale la messa in scena. Il protagonista – buono – soccombe e chissà dove e se troverà la forza di reagire. La capacità di Garrone sta nel far rivivere allo spettatore quel clima a tratti insopportabile, soffocante e lacerante in cui è schiacciato Marcello alla ricerca, inconsapevole, del momento giusto in cui ringhiare tutta la sua rabbia. Nel frattempo lava, pettina e sistema i cani del quartiere e su tutti il placido arlecchino, due volte più grande di lui, da cui trae la tranquillità per affrontare la sua quotidianità e non svilire il suo “ammore” per Alida, sua figlia.

Ed è proprio quell’attrazione empatica instaurata con gli spettatori, che li conduce ad aspettare  (prima) ed apprezzare (poi) l’impeto irruento del piccolo uomo Marcello, circondato dai cani, sempre pronto a comprendere gli istinti dell’ex pugile Simone; di tanto in tanto riesce pure a parare gli uppercut o i  suoi ganci. La sua voce flebile sembra avere un ascendente sul bullo del quartiere che continua ad intimidire i commercianti della zona. Come due cani che abbaiano in modo diverso e il gioco è abbaiare più forte fino a sovrastare l’altro. Metafora della società, metafora della vita.

Come potremmo mai sostenere che un film del genere non meriti un premio nonostante il valore effimero dello stesso?
Di buono c’è che quel premio fa da cassa di risonanza, produce un’eco che speriamo trasformi i 2,5 milioni recuperati al botteghino alla data di uscita, il 17 maggio 2018.

Quasi un anno dopo, la rivincita del dogman.

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