Dumbo: la triste parade hollywoodiana di Burton

by Gabriella Longo

Il celebre elefantino Disney (era del 1941 il cartone animato) torna a volare sul grande schermo, questa volta realizzato in CGI e diretto da Tim Burton. Dumbo conferma la recente tendenza della major americana a realizzare dei rifacimenti in live action di alcuni dei suoi film più famosi: lo abbiamo visto per La Bella e la Bestia, e lo vedremo a breve con Aladdin, Il Re Leone e Mulan.

Una tendenza che, è giusto sottolineare, premia la necessità più che la virtù. Risultato – almeno per ora – sono grandi numeri al box office, ma decisamente poca soddisfazione per coloro che hanno amato gli originali animati.

Dumbo, nelle mani di Tim Burton, sarebbe potuto diventare un capolavoro: atmosfera circense, temi dell’alienazione e della diversità (da sempre a lui cari), animali, bambini e una buona dose di stramberie alle quali non sarebbe stato difficile aggiungerci il solito tocco dark. E avrebbe potuto rappresentare per il regista – che da dopo Big Fish non sembra aver collezionato grandi successi – il riscatto che tutti stavano aspettando.

Nell’originale del 1941, i protagonisti assoluti erano gli animali, fra cui Dumbo l’elefantino e il topolino suo amico; nel film di Burton gli umani, al pari delle bestie, hanno tutti perduto qualcosa. Siamo negli anni Venti, Holt Farrier (Colin Farrell) torna dalla guerra con un braccio mutilato. Sua moglie è morta di spagnola, e il suo circo, nel quale sono restati ad aspettarlo i due figli Milly (Niko Parker) e Joe (Finley Hobbins), è ora gestito da Max Medici (Danny De Vito). E non è che se la passi granché bene: nel carrozzone dei Fratelli Medici – che poi ne è soltanto uno – ci sono fenomeni da baraccone che non fanno cassa. La speranza è rappresentata da un piccolo elefantino con le orecchie più grandi del normale, nato da mamma Jumbo, già parte delle attrazioni del circo. Solo Milly, spalleggiata dal fratellino Joe, si accorge che l’animaletto non è soltanto un goffo “errore di fabbrica” su cui speculare, o un dumb (che in inglese significa “stupido”), ma un essere speciale: basta una piuma che gli solletichi la proboscide, uno starnuto, ed ecco che riesce a spiccare il volo, utilizzando le sue grandi orecchie come un comunissimo paio d’ali. Ma come per i fratelli Farrier, anche a lui toccherà separarsi dalla madre, la quale finirà nel grande parco divertimenti avveniristico del cattivo Vandevere (Michael Keaton) che, incuriositosi dalla particolarità di Dumbo, proporrà a Max Medici di trasferire il suo circo nel parco di Dreamland.

«Alcune immagini del Classico hanno fatto la loro epoca, adesso sarebbero stridenti. Volevamo semplificare il tema: un outsider che sfrutta una debolezza in qualcosa di bello ed emozionante. E poi i circhi non mi sono mai piaciuti. Gli animali devono stare nel loro habitat», ha detto il regista, ponendo l’accento sul fatto che non si tratta di un vero e proprio remake. Così, in questa nuova versione live action, gli animali non parlano, semmai esprimono le proprie emozioni attraverso i loro grandi occhioni, e ad attenderli, un finale piuttosto consolatorio, in quel loro ricongiungersi con la madrepatria africana. Persino la sequenza dei corvi, dalla spiccata accentuazione razzista, scompare nel film burtoniano, mentre, invece, viene riproposta la controversa sequenza degli elefanti rosa che, però, da delirio allucinatorio post sbronza dell’elefantino, diviene una danza sognante di bolle di sapone a forma di pachiderma.

Insomma, una versione addolcita dell’originale, un crogiolo di freaks che non sono davvero freaks, semmai soltanto un pochino eccentrici (imperdonabile per uno come Burton), esplorati comunque troppo superficialmente e quindi incapaci di toccare per davvero le corde del cuore.

E poi è un po’ come attendere Godot: la pellicola non decolla mai veramente. Sembra più una reunion di vecchi compagni di viaggio, un carrozzone di saltimbanchi diretti dal capo circo Burton, tutti, più o meno, outsider del cinema, che dei loro vecchi ruoli non conservano più nemmeno a tempra. Come Keaton e De Vito nel Batman del ’92, rispettivamente nelle vesti del pipistrello mascherato e del Pinguino. O come la bellissima Eva Green che era stata la Miss Peregrine del regista nel 2016, la quale, però, nei panni della trapezista Colette in Dumbo, resta un personaggio femminile davvero poco memorabile (se non fosse per l’intramontabile avvenenza).

Persino il sottotesto critico che è stato riconosciuto alla pellicola – e che vorrebbe Vandevere una copia di Walt Disney e Dreamland il lato oscuro di Disneyland -, si appiattisce in relazione ad un generale andamento politically correct. Burton, che ha esordito con la major, ha con essa mantenuto un rapporto travagliato, ma comunque senza mai farne a meno; e l’esito di questa pellicola non fa che confermare una crisi d’ispirazione che sembra andare avanti da tempo. Un pessimo modo di completare la “trilogia del circo” che il regista aveva promesso all’amico De Vito il quale, dopo i memorabili ruoli del Pinguino in Batman e di Amos Calloway in Big Fish, ci sembra comunque il più convincente fra i suoi colleghi circensi anche nei panni di Max Medici.

Così, dopo Dumbo, si ricomincia ad attendere… da un Burton al quale sembra stia toccando, nel mondo della celluloide, la grottesca sorte dell’amato Ed Wood.

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