1917, gli eroi di Sam Mendes sono i ragazzi della buca accanto

by Nicola Signorile

Algido esercizio di stile o monumentale war movie hollywoodiano? Il dibattito è molto acceso su 1917, l’ottavo film del regista inglese Sam Mendes, candidato a 10 premi Oscar e con ottime possibilità di sbancare il Dolby Theatre di Los Angeles il 9 febbraio prossimo; ha già vinto due Golden Globe per film e regia e il Critics’ Choice Award al miglior regista, ex-aequo con Bong Joon Ho. Lasciamo ai critici titolati le dispute sul senso estetico dell’utilizzo di un unico piano sequenza fake, senza tagli apparenti, a parte un nero che permette di far correre le lancette dell’orologio dal giorno alla notte.

Se l’effetto ricercato da Mendes è immergere completamente lo spettatore nelle trincee europee, portarlo nel bel mezzo dell’azione seguendola in tempo reale, trarre un film di febbrile movimento da un episodio della  Prima Guerra Mondiale, la guerra di posizione per antonomasia, il risultato si può dire ampiamente raggiunto.

1917 è tecnicamente un prodigio, una danza perfettamente coreografata di carcasse e cadaveri, di fuochi, melma, fili spinati, trincee chilometriche e bunker incustoditi. Meandri disabitati attraversati dai caporali Blake e Schofield, due soldati qualunque con facce ordinarie e corpi pronti al sacrificio, chiamati a compiere una missione che va molto al di là delle proprie capacità, forse di quelle di chiunque: attraversare le linee nemiche per portare un messaggio a un altro battaglione, un messaggio funesto per chi “vuole solo combattere”, perché fermerà un attacco imminente, ma che potrebbe salvare 1600 soldati impegnati nell’offensiva, compreso il tenente Blake, fratello maggiore di uno dei due protagonisti. Uno spunto semplice scelto dal regista che per l’occasione scrive la sua prima sceneggiatura, insieme a Krysty Wilson-Cairns, ispirandosi ai diari del nonno, il caporale Alfred Mendes che prese parte alle operazioni nelle Fiandre e sul fronte belga.

All’attesa dello scontro durante la Guerra del Golfo e all’inerzia che manda in pappa il cervello dei soldati il regista aveva dedicato il sottovalutato Jarhead con Jake Gyllenhall nel 2005, per poi dedicarsi negli ultimi anni a defibrillare il brand James Bond con Skyfall e Spectre. Il feeling con il botteghino non gli è mai mancato, sin da un esordio folgorante capace di mettere tutti d’accordo, American Beauty, Oscar alla regia al primo film realizzato. Oggi i suoi eroi sono i ragazzi della buca accanto, pronti a scambiare una medaglia al valore senza pensarci troppo. “Questa guerra può finire solo in un modo, vince chi sopravvive”, sentenzierà il colonnello Mackenzie alla testa dell’offensiva da fermare ad ogni costo. Non si mettono in discussione le motivazioni di un conflitto, o di una missione apparentemente disperata, siamo lontani anni luce dagli Orizzonti di gloria di kubrickiana memoria: conta l’azione e lo scorrere del tempo. Inesorabile. Fin da quando Blake inizia la sua marcia a passo spedito lungo la trincea, con l’amico commilitone recalcitrante alle calcagna, in una corsa per risalire la corrente, rispetto ai reparti che si allontanano dalle zone più esposte ai bombardamenti tedeschi.

I novelli Frodo e Sam (l’accostamento con la missione dei due hobbit del Signore degli Anelli può sembrare ardito) devono portare l’anello-messaggio attraversando le Terre di Nessuno, abitate da un nemico oscuro, invisibile, che vedremo solo in una sequenza notturna da antologia, tra luci e ombre, tra fuochi infernali e rovine spettrali che sembrano allungare gli arti verso il milite sopravvissuto. La sensazione di essere in un nuovo capitolo molto ben fatto di Call of duty c’è: il film è costruito su un susseguirsi di insidie, prove, livelli successivi che i due militi devono superare per portare a casa la pellaccia e salvare il tenente Blake e la sua compagnia. Ma non è una pecca per un’opera che punta all’emozione del coinvolgimento, alla meraviglia dello spettatore davanti a sequenze di grande impatto spettacolare, ma soprattutto che vuol far vivere al pubblico sulla propria pelle quello che sentono Blake e Schofield. La banale quotidianità del conflitto: un attimo prima si riposa immersi in una distesa d’erba – stesso contesto bucolico scelto per chiudere, ellitticamente, la pellicola – quello dopo, tutto può trasformarsi in un inferno.

Ogni sibilo, ogni passo falso, ogni ombra può azzerare la distanza tra la vita e la morte. Una parentesi, dominata dal caso, nelle vite di milioni di ragazzi nati sul finire del diciannovesimo secolo. Il riferimento per 1917 sembra essere più una serie epocale come Band of brothers che i precedenti cinematografici sulla Grande Guerra.  Facciamo ogni passo insieme ai due protagonisti, sentiamo il loro respiro, la macchina da presa ci trasforma nel terzo testimone di una gara disperata; a tratti si allontana per spiarli, li precede, li insegue, li fronteggia, con movimenti fluidi ed eleganti, senza perderli mai di vista. Li guardiamo col fiato sospeso attraversare le Terre di nessuno abbandonate dai tedeschi, scavalcare cumuli di carcasse putride, scendere negli inferi dei bunker, tuffarsi nelle rapide infuriate di un fiume, in una crescente fusione tra uomo e Natura matrigna che ricorda il Revenant di Iñárritu.

Un lavoro di straordinaria perizia tecnica e stilistica, arricchito dalle sottolineature emotive della colonna sonora di Thomas Newman, che ha richiesto sei mesi di preparazione prima delle riprese. Tempo utile per coreografare attentamente un flusso di coscienza che racchiude in 119 minuti le 24 ore che servono a portare a termine la missione; l’escamotage è la perdita di conoscenza di Schofield che ci dà finalmente il tempo di tirare il fiato trasferendo l’azione in notturna. Unico taglio di montaggio evidente, gli altri sono accuratamente nascosti o oscurati (gioco per cinefili individuarli). Merito a Sam Mendes e al geniale direttore della fotografia Roger Deakins, entrambi in odore di Oscar mentre a mancare tra le 10 candidature è proprio il montaggio di Lee Smith, montatore, tra gli altri, di molti film di Christopher Nolan. L’orrore in 1917 è sempre ad altezza d’uomo, in uno sforzo – molto differente dalla guerra verticale del Dunkirk di Nolan – di porre l’attenzione sull’esplorazione dello spazio deturpato da anni di conflitto.

A circondare e inghiottire Schofield e Blake sono animali morti, alberi arsi, cadaveri che si accatastano putrefacendosi, topi grossi come gatti alla ricerca di qualcosa (o di qualcuno) da rosicchiare, fattorie disabitate, villaggi sventrati, una devastazione resa al meglio dallo scenografo Dennis Gassner. Molto interessante anche il casting. I soldati “carne da macello” sono quasi indistinguibili mentre i volti noti sono in scena per pochi minuti e fungono da utili evidenziatori per imprimere nella mente degli spettatori alcuni passaggi cruciali della storia. Colin Firth è il generale Erinmore, il mandante del messaggio, Benedict Cumberbatch, il colonnello Mackenzie, il destinatario, Mark Strong è il solidale capitano Smith e Andrew Scott (il professor Moriarty della serie Sherlock) il tenente Leslie.

I due protagonisti sono interpretati da due attori ancora non divi che hanno già mostrato del talento: George MacKay, londinese dai grandi occhi chiari, era il figlio ribelle di Viggo Mortensen in Capitan Fantastic ed è stato il coprotagonista, al fianco di James Franco, della serie 22.11.63 tratta da Stephen King; l’imberbe attore e ballerino Dean-Charles Chapman è il finto protagonista della prima parte del film Tom Blake, era re Tommen nel Trono di spade (curiosamente il ruolo del fratello è affidato al nemico giurato dei Lannister, Rob Stark ovvero l’attore Richard Madden), ma noto in patria anche per aver impersonato Billy Elliot nell’omonimo musical teatrale. Due ragazzi in cui è facile immedesimarsi. Hanno qualcuno a casa che li attende, sogni e speranze di un’esistenza appena sbocciata. Due come tanti. Dunkirk nel 2017 aveva aggiornato i canoni del war movie sulla Seconda Guerra Mondiale, 1917 è di certo un capitolo  significativo nella lunga storia della guerra sul grande schermo.

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