1917, la Grande Guerra di Sam Mendes è un film immersivo

by Antonella Soccio

1917 di Sam Mendes, candidato agli Oscar per diverse statuette, è un film totalmente immersivo, che o si ama o si odia. Claustrofobico e terrificante, è girato come se sia un unico piano sequenza, grazie allo scenografo Dennis Gassner, che aveva già lavorato con Mendes sia per Spectre sia per Skyfall. 1917 è un’opera monumentale ed esteticamente perfetta che dà la sensazione fisica e psichica di essere dentro le trincee, senza scampo, intinti di liquami tra cadaveri putrefatti, trappole per topi e distruzione, ad un tiro di schioppo dai cecchini. E sempre ad un passo dalla morte. Dopo Birdman di Iñárritu, che aveva convinto l’Academy anche per lo struggente piano sequenza che inseguiva le allucinazioni dell’attore uccello, nei budelli del teatro, 1917 accompagna lo spettatore nella tattica della Grande Guerra, la prima guerra di posizione e di logoramento della storia, grazie alle memorie del nonno del regista, il caporale Alfred H. Mendes.

Chi odia il film lo paragona ad un grande videogame, qualcuno ha infatti parlato di enorme gamification senza emozioni e senza cuore. Ma l’essere come dentro un videogioco è forse necessariamente un limite per un prodotto cinematografico? A giudicare dalla presenza di giovanissimi in sala, tutti intenti a giudicare il piano sequenza e i suoi attacchi, verrebbe da rispondere di no.

Chi lo ama, trova stupefacente l’immersione da thriller nelle trincee, che fecero svanire in breve tempo l’entusiasmo patriottico con cui i soldati avevano affrontato il conflitto, la visione eroica della guerra restò prerogativa di pochissimi combattenti e non include certamente i due giovani protagonisti di 1917. Chi lo ama, ancora, intravede anche moltissimo pathos, nel piano sequenza finale della corsa folle verso l’altro lato della trincea e anche nell’irremovibile senso del dovere e del progresso umano. È come se davanti allo schermo lo spettatore occidentale comprendesse di non avere più la forza, il coraggio e la destrezza di quei lontanissimi nonni, soldati ragazzini del 1899, che anteponevano la nazione ai sentimenti individuali e alla propria stessa vita, per una medaglia, per l’onore, per la giusta causa, anche quando erano obbligati a combattere una guerra che non sentivano loro.

Non c’era tempo per la viltà, si era dentro il flusso della storia, non si poteva temporeggiare. Mors tua vita mea.

La trama è molto esile e semplice: siamo dentro i fatti dell’Operazione Alberico, tra febbraio e marzo del 1917, mentre nel film vengono datati 16 aprile 1917, giorno dell’ingresso in guerra in Europa degli Stati Uniti.

Durante quel periodo, i soldati tedeschi si ritirarono dalle loro posizioni di trincea abbandonandole e si trasferirono di circa 42 miglia sulla Linea Hindenburg, nella Francia nord-orientale.

Inglesi contro tedeschi, in territorio francese.

I caporali Blake (Dean-Charles Chapman) e Schofield (George MacKay) sono chiamati d’urgenza dal generale Erinmore (Colin Firth), che li incarica di consegnare un messaggio al colonnello MacKenzie ( Benedict Cumberbatch) a capo del secondo battaglione Devon dislocato nel bosco vicino alla cittadina di Ecoust, e pronto ad un attacco. La ritirata tedesca è però una trappola e i due ragazzi devono in un giorno e una notte percorrere 15 chilometri per evitare la perdita di oltre 1600 uomini del battaglione in cui c’è anche il fratello maggiore di Blake, tenente.

“Ordine diretto di annullare l’attacco di domani, se non lo fate sarà un massacro”, dice perentorio il generale. La macchina da presa seguirà la loro amicizia e la loro missione, fino alla fine. Nel mezzo la morte di uno dei due e la crescita, l’iniziazione di uomo del sopravvissuto.

“Questa guerra può finire solo in un modo, vince chi sopravvive”, sarà una delle morali finali della Grande Guerra affidata ad un cinico e disincantato MacKenzie.

Il primo tempo di 1917 è eccezionale, un pugno in pieno stomaco, come la pugnalata che riceve Blake, troppo buono ed ingenuo nel voler salvare la vita al nemico tedesco.

I due ragazzi (entrambi gli attori sono bravissimi) entrano anche nelle trincee tedesche e sembra di vedere per immagini lo straordinario racconto del primo libro della trilogia de La Caduta dei Giganti di Ken Follett.

“Era impressionato dalla qualità delle fortificazioni tedesche. Il suo occhio di minatore sapeva valutare una struttura sicura. Le pareti erano rinforzate con tavole di legno, i ripari trasversali ben squadrati e i rifugi erano scavati a una profondità sorprendente- a sei, a volte anche nove metri- con accessi dai telai ben costruiti e scalette di legno. Ciò spiegava come mai tanti tedeschi fossero sopravvissuti a sette giorni incessanti bombardamenti”.

Ci sono sicuramente degli escamotage o delle soluzioni un po’ troppo “telefonate” o troppo forzate per sembrare vere. Perché avventurarsi in una casa diroccata per sparare in faccia al cecchino? Perché perdere tempo in un casolare abbandonato che si scoprirà essere un cimitero per aerei da abbattere in volo?

Il nero della caduta è un chiaro trucchetto per interrompere il piano sequenza e aprirne uno completamente nuovo, sbalzando in avanti col tempo, in modo da scavalcare la continuità e l’unità spazio temporale che questa tecnica di regia imporrebbe.

Anche all’unica donna del film, la giovane francese- che si rifugia insieme ad un neonato non suo nella città in fiamme tanto simile per luce espressionista alla fotografia dell’ultimo Blade Runner di Roger Deakins- viene affidata una simbologia virginea da Madonna con bambino un po’ troppo stereotipata, salvata solo dalla ninna nanna di Edward Lear, tuttavia  la potenza delle immagini di 1917 è così travolgente, come il fiume che trasporta e travolge Sko, che si possono anche perdonare alcune sbavature. Il regista infatti non segue soltanto il punto di vista dei due caporali, ma crea un perfetto meccanismo psicologico della paura, anticipando o posticipando la visione dei due protagonisti. Bellissimo il momento metafisico del battaglione che ascolta il salmo in preghiera nel bosco.

Il film inizia e termina sul prato e non si può non pensare alla bibbia democratica e poetica degli Stati Uniti, le foglie d’erba di Walt Whitman.

Sko ha portato a termine la sua missione, alla fine per la prima volta nel film ci fa vedere la foto dei suoi cari, custoditi gelosamente dentro un quadernetto rigido nel bavero dell’uniforme. A differenza della foto dell’amico, la sua immagine è intonsa, non sporca di sangue. È vivo. Deve rimanere così, pulita: Come back to us, recita la dedica, così come si chiama uno dei brani della stupenda colonna sonora di Thomas Newman, pure candidato all’Oscar.

Per la mulattiera tracciata nella roccia, ci arrampicammo in fila indiana. Il rumore del combattimento di Monte Fior non arrivava fino a noi. Il vento lo trasportava a sinistra, verso Val d’Assa. Il silenzio della notte era rotto solo dai nostri passi a dalle punte ferrate dei nostri bastoni da montagna. Di tanto in tanto, scialba, ci arrivava la luce dei razzi. Alla nostra destra, oltre le pendici di Monte Tonderecar, dall’altro versante, lontano, si sentiva frequente il guaito della volpe, rauco e stridulo, simile a un riso sarcastico.

Un anno sull’Altipiano, Emilio Lussu

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