“Da 5 Bloods – Come fratelli”, Spike Lee e il primo Vietnam movie incentrato sul ruolo dei soldati afroamericani

by Nicola Signorile

Eravamo quattro amici a Saigon. Da 5 Bloods – Come fratelli, nuovo film di Spike Lee arrivato direttamente su Netflix, è un’opera sgangherata, verbosa, imperfetta, ricca di passione civile e di idee registiche, estetiche e narrative.

Una riflessione tra le più  personali nell’ampia filmografia dell’autore di Atlanta, uno che ha impresso il suo graffio politico in ogni lavoro. Qui la trama è poco più di un vestito, non sempre indossato al meglio, per un atto d’accusa nei confronti degli Stati Uniti e delle rimozioni storiche, da sempre un pallino per l’autore di Fa’ la cosa giusta e Mo’ Better Blues. Si tratta del viaggio in Vietnam di quattro veterani afroamericani – Paul (Delroy Lindo), Otis (Clarke Peters), Eddie (Norm Lewis) e Melvin (Isiah Whitlock, Jr.)  – alla ricerca di una cassa di lingotti d’oro sepolta durante il conflitto e dei resti di Norman “Stormin’ Norm” Holloway (Chadwick Boseman), caposquadra, amico, leader spirituale del gruppo, caduto in battaglia.

 In apparenza una caccia al tesoro in un paese esotico che in realtà, attraverso i suoi 154 minuti, costringe lo spettatore a variazioni continue e repentine di tono e genere con flashback ambientati durante la guerra, sottolineati da cambi del formato dell’immagine e della pellicola utilizzata. Il talento dell’autore permette questo ed altro. Tuttavia, gli spettatori legati al cinema più popolare di Lee, quello di Inside man o del recente BlacKkKlansman, potranno sentirsi spiazzati da un simile susseguirsi di tornanti e inversioni a U.

Costruito come un western senile su quattro uomini che, tornando sui propri passi insanguinati, fanno i conti con se stessi e con il tempo passato, Da 5 bloods è anche un romanzo d’avventura sulle tracce de Il tesoro della sierra madre di John Huston. Ma soprattutto è un film bellico, nella storia del cinema mondiale il primo Vietnam movie incentrato sul ruolo dei soldati afroamericani, un vuoto che poteva colmare solo Spike Lee.

Il pamphlet politico non è mai celato, si prende direttamente la scena. Lee  gioca a carte scoperte, dall’apertura con Mohammed Alì che rifiuta la chiamata alle armi e le immagini delle proteste dei giovani nelle città americane al finale riservato a Martin Luther King.

La narrazione è puntellata da spiegoni, digressioni, materiali d’archivio, foto, video su personaggi storici citati che si aprono in un ideale ipertesto di approfondimento sulla sommersa storia black (su fatti e figure il più delle volte sconosciute e ignorate, è bene sottolinearlo). Didascalismi che appesantiscono la visione? In parte, sì. Ma Lee è anche questo: prendere o lasciare. Come lo si riconosce nelle sequenze potenti nella giungla (grande lavoro del direttore della fotografia Newton Thomas Sigel), nel disinvolto uso delle varie tecniche di ripresa, nel vigore creativo ancora inarrestabile, nella vis polemica mai doma.

 In principio c’era uno script di Danny Bilson e Paul DeMeo con il titolo The last tour con protagonisti bianchi che avrebbe dovuto finire nelle mani di Oliver Stone, che sul Vietnam ci ha regalato già perle come Nato il 4 luglio e Platoon. Poi, il progetto è finito nelle mani di Lee che lo ha riscritto insieme a Kevin Wilmott, co-sceneggiatore di BlacKkKlansman, mutando protagonisti e prospettiva. Dandogli “un po’ di funk, un po’ di Marvin Gaye” disse all’Hollywood Reporter. Infatti il film pesca a piene mani nell’epocale disco del 1971, What’s Going on, preziosa architrave della colonna sonora di Terrence Blanchard che dà il suo meglio durante le scene nella giungla del Vietnam, ricostruita in Vietnam e Thailandia.

All’inizio dell’avventura, quando i veterani si re-incontrano in un albergo della ex Saigon, oggi Ho Chi Min City, il tono è cameratesco, simile a quello degli Expendables (I Mercenari) di Stallone e Dolph Lundgren. Paul è quello sul quale il Vietnam ha lasciato i segni più evidenti, non è mai tornato a casa. Un nero americano di mezza età che ha con convinzione votato Trump, con in testa il cappellino “Make America Great Again”. Un solco è tracciato tra il gigantesco personaggio interpretato dal redivivo Delroy Lindo e i suoi amici. Una figura che diventerà via via dominante, nel suo inquietante dramma interiore, acuito da un disturbo post-traumatico mai tenuto a bada, e nel rapporto conflittuale con il figlio David (Jonathan Majors) che si unisce alla caccia. Eddie è quello che apparentemente ce l’ha fatta, possiede una catena d concessionari d’auto. Otis è il più saggio, Melvin quello che pensa più che altro a spassarsela. Grazie ai flashback, conosciamo Norman, “il fratello migliore”. Era stata sua l’idea di seppellire la cassa piena di quell’oro che gli americani usavano per convincere la popolazione a combattere al loro fianco contro i vietcong. Per poi riprenderselo più avanti “in nome di ogni soldato nero che avrebbe fatto ritorno a casa, e di tutti i fratelli e le sorelle strappati dalla nostra Madre Africa e venduti a Jamestown, Virginia, nel lontano 1619”.

Norm li ha guidati, rassicurati, è stato il loro profeta, li ha resi consapevoli della storia dei neri d’America, “è stato il nostro Malcolm e il nostro Martin”, spiega Otis al giovane David. Ma il tempo passa. Le buone intenzioni possono lasciare il passo all’avidità, quando in ballo c’è un mucchio di milioni di dollari. E l’intento iniziale di Norman, usare i lingotti per riparare ai torti subiti dalla loro gente, non è condiviso fino in fondo da tutti. Di mezzo ci si mette l’ambiguo ricettatore Desroche (J​ean Reno)​, ma anche serpenti, mine, trappole, disseminati lungo il loro cammino, infine un pugno di ufficiali vietnamiti interessati al bottino. Anche se il tratto più interessante resta il rapporto tra i quattro commilitoni e la battaglia che ciascuno combatte prima di tutto contro se stesso. I toni da commedia, addentrandosi nella foresta, lasciano presto il posto a rimorsi e rivendicazioni reciproche.

Le ferite del Vietnam, visibili o meno, fanno parte del pesante fardello di ognuno di loro. Mentre si infittisce la vegetazione, tra cascate, ruscelli, templi buddisti, strani suoni di ignoti animali, un contesto in cui il metropolitano Spike mostra di trovarsi perfettamente a proprio agio, i personaggi si inoltrano nelle profondità del proprio animo, in una esplorazione psicanalitica che non manca di citare Apocalypse Now, forse il massimo capolavoro su quella sporca guerra.

Una  lunga e sanguinosa tragedia per la prima volta vista attraverso l’esperienza dei soldati neri, quelli sacrificabili, schierati sempre in prima linea. In Vietnam furono il 31% delle forze militari Usa mentre in patria erano solo l’11% della popolazione. La storia la scrivono i vincitori, ma soprattutto la scrivono i bianchi. E così il cinema, sempre pronto a stravolgerla, con quei “fintissimi film di Rambo”. Melvin non vede l’ora di vedere un film su un vero eroe americano come Milton L. Olive III, il soldato di fanteria diciottenne che, per salvare altre vite, restò ucciso da una granata, “il primo fratello della Guerra in Vietnam ad essere insignito della Medaglia d’onore”. Spike Lee se ne sbatte delle incongruenze. I protagonisti nei flashback non sono interpretati da attori più giovani o ringiovaniti digitalmente come ha fatto Scorsese in The Irishman. Sono gli stessi attori a recitare accanto a Chadwick “Black Panther” Boseman, scelta che, dopo un iniziale straniamento, non disturba più di tanto la visione. Per non parlare della loro età: i soldati che hanno combattuto nel 1971 oggi dovrebbero avere settant’anni o poco meno, invece alcuni di loro ne dimostrano meno di sessanta.

 Non ci sono grandi divi in quest’opera crepuscolare, ma un ottimo gruppo di caratteristi di grande esperienza. È Delroy Lindo, una sicurezza del cinema anni ’90 (tra Get Shorty, Una vita esagerata, Ransom, Insieme per forza tra i tanti)  a rubare la scena: il suo Paul è un personaggio colmo di risentimento e sensi di colpa, un gigante brutale che arriverà a mettere in dubbio persino l’amore filiale e la fratellanza dei compagni d’avventura; il suo delirio in primissimo piano, nelle sequenze finali, spiattellato in faccia agli spettatori, è intriso del dolore e dell’incapacità di stare al mondo di un uomo che ha visto e fatto troppe cose brutte in quella maledetta guerra. Norman torna continuamente nei suoi racconti e Boseman ha il carisma giusto per incarnare un personaggio così decisivo per le vite dei quattro amici rimasti.

Clarke Peters, indimenticabile nella serie The Wire, è bravo nei panni di Otis, un medico che in Vietnam, oltre ai tre amici, ritrova la vecchia amante Tiên (​Lê Y Lan​) e scopre di avere una figlia, nata dalla loro relazione nel 1971. Meno approfondite le figure di Eddie e Melvin, rispettivamente interpretati da Norm Lewis, molto noto negli Stati Uniti per i suoi ruoli a Broadway (su tutti Les Misérables e Porgy and Bess), e da Isiah Whitlock, Jr, volto noto di cinema e tv (da Law & Order alla stessa The Wire), già in Lei mi odia e Chi-raq di Spike Lee. Un po’ caricaturali i personaggi di Reno e l’improbabile squadra di sminatori: qui Lee spreca la presenza magnetica di Melanie Thierry (La Doleur, Perfect day), affiancata da Paul Walter Hauser, protagonista del recente Richard Jewell di Clint Eastwood e Jasper Pääkkönen (Vikings).  

Pecca per eccesso talvolta questa sovrabbondante lezione di storia che però conquista per la passione e l’urgenza espressiva del suo autore. Si è detto che sembra girato oggi per come si innesta alla perfezione nel clima di questi giorni con le proteste dopo l’uccisione di George Floyd e il movimento Black Lives Matter, che vediamo in un filmato nei minuti finali della pellicola.

Spike Lee ci aveva già provato con Miracolo a Sant’Anna, allora con risultati deludenti, ad imbastire una lezione di storia per mettere in risalto il contributo dei soldati afroamericani (850.000 arruolati) nella Seconda Guerra Mondiale. Il loro sacrificio in difesa dei valori di un’America matrigna. Era già successo durante la Guerra di Secessione con la vana promessa della libertà, impressa nel Dna del regista che ha scelto di chiamare la sua storica casa di produzione 40 Acres & A Mule Filmworks: 40 acri e un asino, ovvero quanto fu promesso e non dato agli schiavi neri per convincerli a combattere contro il Sud antiabolizionista. Un impegno mai mantenuto: questo è stata ed è la libertà per la popolazione nera negli Stati Uniti di ieri e di oggi.

Non si dimentica la popolazione locale in Da 5 bloods. Otis e compagni se la spassano in un locale, chiamato Apocalypse Now, prima di partire per la loro impresa. Due vecchie guide vietnamite offrono loro da bere, suscitando lo sdegno del rancoroso Paul, e propongono un tour tra le rovine di quella che loro chiamano “la guerra americana”. Una volta su sponde opposte, quelle del Vietnam del Nord e del Sud, oggi ci hanno messo una pietra sopra. In nome degli affari e del trionfante capitalismo, con le insegne del Mac Donald a occhieggiare per le strade di Ho Chi Min City. E la giovane guida assoldata, Vinh Tran (il maestro di arti marziali Johnny Trí Nguyễn) è uno dei tanti vietnamiti ai quali la guerra ha massacrato tutta la famiglia. È lì a rammentare, senza astio nei confronti dello Zio Sam, che le conseguenze di quei fatti non riguardano solo i soldati americani. Così come i militari locali ricordano ai nostri eroi i massacri della popolazione civile operati dalle forze Usa: ce n’è per tutti, insomma, com’è giusto che sia. Se lezione di storia deve essere, che non lasci in ombra la popolazione locale, la vera vittima non solo del conflitto ma anche di un cinema americano mainstream, il più delle volte, antistorico e di propaganda. I nativi d’America ne sanno qualcosa.

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