Anne Frank e l’infinita potenza della parola che l’ha resa eterna

by Paola Manno

Esco dal cinema con un groviglio di emozioni nel petto e sento che ho bisogno di un po’ di tempo per districare i nodi, per poter dar loro un nome.

Penso anche che è comunque sempre una cosa bella uscire da una sala con la sensazione che molto di quello che abbiamo visto ci rimane addosso come una coperta, appiccicato agli occhi come un velo che ci lascia straniti, e dobbiamo fare uno sforzo per tornare alla realtà.

Il primo filo che riesco a sciogliere ha un nome: orrore. La Shoah è uno degli eventi storici più documentati e raccontati, ma un film come “#Anne Frank, vite parallele”, scritto e diretto da Sabina Fedeli e Anna Migotto, prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, ha ancora il potere di tirar fuori il disgusto profondo verso il male. Prima dell’incomprensibilità, prima della rabbia, quello che resta è proprio l’orrore. Forse lo spettatore è tristemente abituato alle immagini dei campi di sterminio, ma le parole, io credo, conservano invece un’infinita potenza. Il potere evocativo del ricordo-racconto fa sentire a chi ascolta un dolore fisico.

Le voci delle sopravvissute sono chiodi conficcati nella coscienza: “Ogni tanto mia madre, di nascosto, rischiando la vita, dal suo capannone veniva a trovare noi bambine. Non era più la mia bella mamma curata e ben vestita. Non riuscivo neanche a salutarla. Quando ho stretto per la prima volta mio figlio tra le braccia, solo allora ho compreso il dolore che devo averle provocato”.

Il film è il viaggio di un’adolescente, interpretata da un’intensa Martina Gatti, nei luoghi di Anne Frank e di cinque donne sopravvissute ai lager, tutte coetanee di Anne all’epoca della deportazione.

Sono molte le domande che questa ragazzina con lo smartphone in giro per l’Europa si pone: cosa farebbe oggi Anne Frank se fosse sopravvissuta? Cosa ci trasmettono le sue parole? Dove mi sta portando la sua storia?

È una sorta di dialogo tra quella che oggi è diventata un’icona e una millenial, tra la Storia e la contemporaneità, tra l’ieri e l’oggi, attraverso un ideale confronto tra coetanee. È un film che si rivolge ai ragazzi, soprattutto, che utilizza un linguaggio diretto, un montaggio coinvolgente.

Un film ricchissimo di testimonianze, di voci, di luoghi, di lingue, di colonne sonore originali, di mezzi, costruito grazie a interviste dirette, ricostruzioni storiche, immagini di archivio.  È un film poetico, dalle immagini curate, una fotografia ricercatissima, la colonna sonora del talentuoso Lele Marchitelli.

La voce e il volto di Helen Mirren, chiusa nella stanza di Anne (ricostruita esattamente com’era nel 1944), che legge alcune pagine del suo diario, sono intense, potenti e creano una forte empatia.

La figura di Anne Frank, la ragazzina di 13 anni rinchiusa per oltre 2 anni in un appartamento segreto ad Amsterdam per sfuggire alla rabbia dei nazisti, viene fuori come un gigante. Tante cose, vengono fuori: la sensibilità dell’adolescente, la voglia di vivere, l’intelligenza, la paura ed il coraggio, la fede nella scrittura, soprattutto. La scrittura che ha spazzato via tutto il resto: la Storia, il tempo, i nazisti, tutte le altre ragioni del mondo. La scrittura-resistenza che l’ha resa eterna: simbolo di un’ingiustizia intollerabile, simbolo del bene che vince sul male.

Prima di essere ebrea, Anne era una bambina che insieme a 1 milione e mezzo di altri bambini e adolescenti, è stata uccisa dalla follia dell’odio verso l’altro e dall’indifferenza.  Si, Anne viene fuori in tutta la sua potenza: è l’innocenza che riporta la bellezza e permette di credere in un futuro diverso.

Cosa sarebbe diventata Anne se fosse sopravvissuta? Sarebbe diventata la scrittrice che sognava di essere? Avrebbe continuato a credere nell’intima bontà dell’uomo?

Esco dal cinema e mi accorgo che sono molti gli adolescenti che escono affianco ai genitori che li hanno accompagnati, discutono insieme del film confrontandosi. Altri fili si snodano: l’importanza del testimoniare, sempre, sempre; la fede nella parola scritta; il dolore delle madri, non riesco a immaginarne uno più incolmabile; il senso di vergogna e quello di colpa; la condanna dell’antisemitismo.

È un’opera potente e ben fatta, questa qui. Un’opera che tocca il cuore. Un’opera, tuttavia, con pochissimi riferimenti al presente. I ragazzi che visitano i musei si interrogano su quello che è stato, i nipoti delle sopravvissute si chiedono cosa resterà della Shoah nella loro vita, tatuandosi un numero sul braccio. Un’opera che giustamente condanna il passato, ma che forse, mi dico, avrebbe potuto condannare con vigore quello che accade oggi, e che ha esattamente le stesse radici ideologiche del nazismo. Solo una breve battuta racconta l’ingiustizia sotto ai nostri occhi: “la gente che sogna un futuro migliore, e oggi muore sui barconi” ricorda una delle sorelle Bucci.

Un film politicamente corretto, ecco… una ricostruzione imponente, che si sofferma su quello che è stato. Penso che sarebbe stato bello e importante, per un film che si rivolge ai ragazzi, un confronto con l’oggi, un dialogo a due. Qui è Anne a raccontare l’orrore e la rivalsa. Quale potrebbero essere, mi chiedo, le risposte di un millenial?  Eccolo, l’ultimo nodo: ho sentito l’esigenza di ascoltare anche la voce degli adolescenti di oggi rispondere ad Anne, che era una bambina, prima di essere ebrea, vittima dell’odio razzista, che voleva dimostrare com’era forte e intelligente, esattamente come quel bambino con la pagella in mano, affogato ieri nel Mediterraneo.

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