Bandite, il documentario sulla storia dimenticata delle donne partigiane

by Gabriella Longo

Un racconto a sei voci, tutte femminili, di quelle donne che fra il 1943 e il 1945 si vanno “a conquistare la rossa primavera” italiana. Si chiamano Annita Malavasi, Viera Geminiani, Silvana Guazzaloca, Mirella Alloisio, Walkiria Terradura e Bianca Guidetti Serra, le protagoniste di Bandite, documentario del 2009di Alessia Proietti e Giuditta Pellegrini.

Queste partigiane, che hanno imparato a non perdere tempo,chiariscono immediatamente i loro nomi “di battaglia”: Mirella Alloisio, ad esempio, è Rossella, “che non deriva da Via col Vento”, ci tiene a puntualizzare, ma dal cognome di Carlo e Nello, i noti fratelli dell’antifascismo italiano. O la Terradura, dettaWalkiria, come una figlia del dio della guerra. Nessun intento marziale, però, è dietro all’impegno attivo di queste sei militanti, legate a profonde ragioni umane più che politiche.

Le pistole le avevano, i mitra anche, spesso nascosti imprevedibilmente sotto strati di indumenti e calzamaglie mantenute, con lungimiranza, sempre integre. Hanno usato la loro insospettabilità per portare quelle armi sui luoghi degli attentati e per poi toglierle alla vista in modo altrettanto silenzioso. Hanno dato i ponti in pasto alla dinamite e sabotato il mercato guerrafondaio dei tedeschi penetrati nella penisola. Ma come suggerisce Walkiria, che saggiamente cita un libro per lei molto importante della gappista romana Carla Capponi, “abbiamo combattuto Con cuore di donna”, alludendo alla doppia natura della loro ribellione, quella atta a scardinare un ruolo sociale rigidamente imposto al proprio genere da vent’anni di fascismo, e al contempo rivendicare il loro essere partigiani tra partigiani.

Il film, scandito dal cronologico susseguirsi di capitoli, ripercorre gli anni in cui la guerra entrava in Italia dalla voce di una radio, strappando per sempre queste bambine ai loro giochi in cortile estravolgendo la vita delle loro famiglie di mondine e mezzadri, bacini di socialisti e mai tesserati, in perenne fuga dall’olio di ricino. La loro rivoluzione non viene dalle lettere – “ho solo letto dei gran libri”, commenta laconica Silvana – ma da una progressiva presa di consapevolezza dello stato di “coniglia” comune a tutte le donne, i cui figli vengono strappati con tragica puntualità e consegnati ad un fronte insaziabile. 

La necessità di scardinarsi da quel ruolo a cui le confina la propaganda si fa più urgente e cresce man mano che i posti lasciati vuoti dagli uomini diventano i loro. Da quelli nelle fabbriche a quelli dietro grandi Olivetti, dalle quali si stampano in gran segreto centinaia di volantini su carta carbone invocanti il diritto di voto, la parità dei salari. Ai roboanti inviti alle armi, incoraggiati dalla seducente retorica machista di certe cartoline delle SS, nel film alternate alle testimonianze dal vivo, si oppone il silenzioso maternage delle partigiane in favore dei fuggiaschi, spogliati degli abiti di disertori militari e trasformati nuovamente in civili.

Bandite, perché è così che i tedeschi le chiamavano, ma anche bandite dalla storiografia ufficiale che le ha relegate, nell’immaginario comune, al ruolo di staffette in bicicletta. In realtà il loro posto nella storia è stato ben più grande e lungi dal dirsi completo una volta fatta la Liberazione. L’impegno nella resistenza di questo esercito irregolare che giungerà al diritto di voto nel ’46, fa pensare alle importanti (e quantomai attuali) parole di Rossella quando dice che “le conquiste non sono mai definitive”. Ciò che si va a celebrare oggi è il risultato di un sanguinoso e lungo cammino di conquista della libertà, frutto di tre guerre di indipendenza e di due guerre mondiali, che da sudditi ci ha resi cittadini, ma che non può e non deve esaurirsi nemmeno quando ci si trova a festeggiare compleanni e compleanni di democrazia. 

L’intento di un documentario come questo, nonostante le ritrosie incontrate dai canali italiani nella suaproduzione e distribuzione, (secondo, peraltro, nel racconto delle donne partigiane al film di Liliana Cavani “Le donne nella Resistenza” datato 1965) è di evidenziare un vuoto storiografico, una falla nel complesso sistema che è la memoria. Un’ impasse di difficile soluzione, specie oggi che le nostre memorie digitali sono sempre più minacciate da problemi di “capacità” dell’archivio. E quando il passato inizierà a diventare troppo grande, il timore costante è quello di dover far spazio sull’hard disk. Abbassare la guardia, cancellare sistematicamente, cedendo all’equivoco che il presente sia “il migliore dei mondi possibili”, significa rischiare di ripercorrere le stesse strade e non avere più spalle forti sulle quali salire per guardare dall’alto. I classici insegnano che non bastano migliori cornici e buone costituzioni a fare l’ethos degli uominiche abitano la Storia.

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