Che fine ha fatto Baby Jane?, il viaggio all’inferno di Bette Davis e Joan Crawford

by Giuseppe Procino

Della rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford resta una pellicola che assorta a status di cult assoluto, rispecchia alla perfezione il contrasto tra dive più noto della storia di Hollywood. “Che fine ha fatto Baby Jane?” sembra essere stato pensato per innescare una chimica esplosiva tra le due attrici che avrebbero interpretato due sorelle, ex dive, incastrate nel ruolo ambiguo di vittima e carnefice.

Era la prima volta che le due si ritrovavano a condividere lo stesso set ecco perché la trovata di Robert Aldrich di assegnare le parti da protagoniste alle due eterne rivali non convinse subito i produttori, terrorizzati dalla convivenza forzata dei due star.

Non avevano tutti i torti: la Davis girando una delle scene madre della pellicola, la prima in cui la violenza di Jane Hudson si manifesta in maniera fisica ai danni di sua sorella Blanche, ruppe davvero la testa a Joan Crawford, che terrorizzata, per il proseguimento delle riprese pretese una controfigura nelle scene più violente.

Assurdo se si pensa che era stata proprio Joan Crawford a convincere la sua acerrima nemica ad accettare la parte nel film suggerendole, prima di rifiutare, la lettura dell’omonimo romanzo di Henry Farrell da cui era stata tratta la sceneggiatura.

Era il 1962 e l’industria cinematografica mostrava tutto il suo volto impietoso verso le attrici non giovanissime, Bette Davis non aveva molta scelta. La diva dagli occhi grandi, infatti, vide nel film di Aldrich la possibilità di tornare nella considerazione del grande pubblico, ipotizzando di intercettare quel target che anni prima aveva decretato il successo di Psycho di Alfred Hitchcock. Accettò ma a patto che la pellicola fosse girata in bianco e nero.

È impossibile immaginare “Che fine ha fatto Baby Jane” senza le interpretazioni di Bette Davies e Joan Crawford, senza la loro vivida fisicità, in grado di restituire il patetico senso di frustrazione del rifiuto del tempo che avanza inesorabilmente questo anche perché il film arrivò in un momento della loro carriera assolutamente non florido. In questo rifiuto, si nasconde l’incapacità di accettare le regole del gioco del mondo dello spettacolo, a volte benevolo, a volte crudele. Questa è la grande differenza con il capolavoro hitchcockiano, la presenza di un messaggio ben preciso che discosta il film di Aldrich da un prodotto di puro entertainment fine a se stesso.

La rivalità reale, cominciata negli anni trenta, tra le due dive amplifica sulla pellicola le atmosfere cupe e distorte di questo capolavoro. Le loro interpretazioni rispecchiano un reale senso di disagio che attrae lo spettatore verso un macabro circo degli orrori.

Eppure, le due sorelle sono le due anime di una stessa creatura che si muove e respira in uno spazio angusto: la casa.

La casa è luogo ideale delle sicurezze ma anche paradigma del confinato, del taciuto, e in questo caso simbolo della delusione in grado di trattenere due nature: una passiva e l’altra assolutamente aggressiva. È qui, tra quattro mura, che si svolge la storia delle sorelle Hudson, questo gioco al gatto con il topo senza via di uscita che è invisibile al mondo esterno.

La casa diviene identità del sistema, scrigno dell’accettazione ma contemporaneamente anche dell’ostinazione. È in questa scatola immaginaria che assistiamo all’escalation della follia della Baby Jane divenuta ombra rancorosa del passato ai danni  dell’inerme Blanche. È il mondo del cinema che dimentica e racchiude, confina in un non luogo tutto quello che non produce più profitto, lo lascia al buio a prendere polvere. È crudele, violento a volte bugiardo. Sono semplicemente le regole del mercato in stretta dipendenza con il tempo che dà e toglie senza alcuna pietà. Nell’epilogo, sconvolgente, si nascondono anche l’abbandono e la pacificazione con il proprio ego ferito.

Così tra le espressioni febbrili e cariche di grottesco di Bette Davis, esiste una critica feroce al mondo contemporaneo, in cui le attrici sono carne da macello e si palesa una riflessione sulla condizione delle baby star, assolutamente attualissima, costrette alla fine a fare i conti con la realtà.

È la presa di coscienza di chi ha visto il lato più oscuro della medaglia, di chi conosce le parabole discendenti ad esempio dei protagonisti di “Our Gang” (“Le simpatiche canaglie”) tutte segnate da tragici epiloghi.  Attraverso un bianco e nero claustrofobico, con un ritmo ansiogeno, si delinea così un ritratto impietoso del sogno Hollywoodiano, smascherato della sua patina iridescente, fatta di sogni di gloria, una sorta di binario parallelo con “Viale del tramonto” di Wilder ma dodici anni dopo.

“What ever Happened to baby jane?” ci accompagna in un viaggio nell’inferno del giorno dopo, quando la bolla dell’illusione è scoppiata. Attraverso una tensione emotiva in costante salita, Aldrich ci accompagna in questo straordinario viaggio all’inferno, in bilico tra horror classico e thriller psicologico. La regia inizialmente doveva essere affidata ad Alfred Hitchcock che rifiutò perché troppo impegnato. Aldrich dimostra competenza, prendendo del maestro del thriller inglese, un gusto espressivo (a tratti espressionista) per la luce e dosando con incredibile potenza la tensione emotiva.

La pellicola si rivelò un assoluto successo di critica e pubblico e fu candidata a cinque premi oscar, di cui una a Bette Davies come migliore attrice protagonista. Ne vinse solo uno per i migliori costumi. 

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