Dal tripudio di gioia al dolore che si cristallizza in oggetti simbolo: il cinema puro de “Le sorelle Macaluso”

by Paola Manno

Ci sono registi che amo perché ti fanno sentire la bellezza del cinema puro. Ce ne sono altri, spesso provengono da esperienze diverse, che invece mostrano la forza della contaminazione e questo è un cinema che trovo molto stimolante. Inoltre, mi piace riconoscere la sensibilità di una donna dietro la macchina da presa e mi piacciono i racconti sui rapporti al femminile. L’ultimo film di Emma Dante, Le sorelle Macaluso, in concorso alla 77esima edizione del cinema di Venezia, condensa bene questi elementi e mi convince del talento di un’autrice cresciuta nel teatro, capace di gestire con destrezza non solo un cast eccellente, ma anche, soprattutto, un lessico più articolato.

La storia è quella di 5 sorelle siciliane, orfane, che per campare gestiscono un piccolo allevamento di colombe, volatili richiesti come abbellimento per matrimoni. Nonostante abitino in un vecchio appartamento sgarrupato, in cui persino gli uccelli sono liberi di circolare, nonostante l’evidente povertà, le ragazze vivono la loro estate con un’allegria che trabocca e coinvolge. Il film si apre con un tripudio di gioia, costellato di elementi che la raccontano con delicatezza: piccoli godimenti come la concessione del rossetto sulle labbra, o un passo di danza ostentato sulla strada del mare, o lo scavalcare sorridendo il cancello di uno stabilimento balneare a pagamento.

In questa periferia di una Palermo di palazzi e canali e campi desolati, il pulsare della vita sembra essere più forte di tutto. La vita che è la corsa di 5 ragazze libere sulla spiaggia, sulle note di Sognare di Gerardina Trovato, scelta così banale, così azzeccata. Un mio amico regista una volta mi ha detto: un grande autore sa prendersi la responsabilità della banalità. Sognare, sognare e correre per spazzare via tutte le brutture della propria esistenza, anche se poi quella gioia di vivere è essa pure spazzata via dalla tragedia della morte della minore, in quello stesso assolato pomeriggio estivo: -Ti ricordi, era una giornata bellissima, confiderà anni dopo una delle sorelle all’altra. Noi non sappiamo cosa successe quel giorno, e i giorni a seguire, ma vediamo cosa succede molto dopo, a distanza di 30 e poi 40 anni, perché la regista ci racconta la vita delle sorelle Macaluso ormai adulte, e poi anziane.

Dove sono finite quelle ragazzine? Quale tra loro è la bellissima ballerina che danzava sulle punte, chi quella che amava il rossetto scuro? Dov’è che finisce l’innocenza, dove l’amore? Quando diventiamo quelle che siamo ora e qual’è il peso degli eventi tragici in ogni esistenza? Pare chiedersi questo e molto altro Emma Dante in un’opera che dà importanza estrema alla scenografia, alla luce, a tutti quegli elementi che raccontano lo spazio, la casa (che diventano uno spazio, una casa interiore), ma anche alle parole, attraverso citazioni di opere letterarie che una delle sorelle legge ad alta voce. Cosa vogliono dirci queste parole così ostentate, così esplicite (ancora una volta, la responsabilità della banalità), come in una scena finale in teatro, come una rivelazione?

“Le creature animali non sono come quelle umane. Conoscono la gratitudine e non chiedono nulla” (Anna Maria Ortese).

La seconda parte del film, così cozzante con la prima, a me è parsa un lungo ripetersi di un pensiero, e cioè che la vita è piena di morte. La bambina affogata vive insieme alle sorelle in un pensiero visibile che, ancora, è ostentato, è già visto, ma funziona, rende tutto poetico e bello, riempie il film di una presenza che tocca il cuore dello spettatore.

Già, la vita è piena di morte, di cose morte, ma è anche piena di altro, di dolci al kiwi, di danza, del mare azzurrissimo, di colombe bianche che accompagnano le spose ma anche le bare, di piatti del servizio buono, ma soprattutto, soprattutto di sorellanza, nonostante tutto il male. Ecco, vi è in questo secondo tempo il racconto della quotidianità del dolore che si cristallizza in oggetti-simbolo, uno su tutti il piccolo uovo di colomba che la bambina Antonella culla tra le mani, un uovo che rappresenta la vita, contrapposto all’uovo di dinosauro in plastica scovato in un campo il giorno della tragedia.

C’è infine un’altra cosa che ho trovato nel film, che mi ha fatto pensare alla Szymborska, e che ha a che vedere col tempo. Da una parte ci sono gli anni che passano, che rendono le pareti sporche e gli animi insofferenti, ma dall’altra c’è il tempo fermo, quello che non cambia mai, che è esattamente il momento in cui tutto si è spezzato. Come sarebbe andata se tu non fossi morta? -sembrano chiedersi le sorelle. Il momento in cui tutto è successo, che facevo? Ero in mare a nuotare a venti metri da te, oppure a baciare una ragazza bellissima che amavo? Perché non ero lì a proteggerti? Dov’ero in quel momento in cui morivi, Antonella?

I versi sono quelli di Incidente Stradale, e cantano lo stesso, identico dolore:

“Ancora non sanno/cos’è successo/mezz’ora fa, sulla strada./ (…) Qualcuno scola la pasta./Qualcuno rastrella foglie nel giardino./I bambini corrono strillando intorno al tavolo./Il gatto si degna di farsi carezzare”

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.