“Doppio sospetto”, il thriller di Masset-Depasse sullo scontro tra due femminilità, che schiuma rancore e follia

by Nicola Signorile

Raccontare un film come Doppio sospetto di Olivier Masset-Depasse senza svelare troppo richiede una capacità di dribbling degna dei migliori funamboli del calcio. Un thriller costruito ad arte sulla tensione e sui colpi di scena che si rifà alla tradizione senza ricadere nell’esercizio di stile citazionista o nella banale riproposizione di stilemi codificati.

Coinvolge e ammalia la terza opera del belga Masset-Depasse, dopo Illégal che nel 2010 lo impose all’attenzione internazionale. Con Doppio sospetto, presentato al Toronto Film Festival, ha fatto infatti incetta di Magritte, il premio nazionale cinematografico belga, ottenendone 9 e sconfiggendo a sorpresa L’età giovane dei fratelli Dardenne.

Hitchcock, Brian De Palma, David Lynch, Douglas Sirk: riferimenti altisonanti che si ritrovano tra le pieghe di questo noir al femminile che gioca sul tema del doppio (Duelles è il titolo originale francese), investendo sulle sottigliezze psicologiche dei suoi personaggi, in particolare delle due protagoniste Alice e Céline, interpretate con estrema efficacia da due ottime attrici come Veerle Baetens e Anne Coesens. Due grandi amiche che vivono in due ville a schiera gemelle collegate, con rispettivi mariti e figli, i piccoli Thèo e Maxime, a loro volta, grandi amici. Due famiglie speculari che condividono tutto, specchiandosi l’una nell’altra. Almeno fino al giorno in cui Alice assiste, impotente, alla morte accidentale di Maxime. 

Il dramma è congelato nelle atmosfere algide degli anni ’60, l’epoca scelta da Masset-Depasse per ambientare l’adattamento del romanzo Derrière la haine di Barbara Abel. Case come prigioni dorate di sobria eleganza, gesti trattenuti, emozioni represse. La patina del socialmente accettabile, del bon ton, delle regole del buon vicinato nasconde un rapporto simbiotico che deteriora, si deforma, incancrenisce. Céline accusa l’amica di non aver fatto abbastanza per salvare il piccolo Maxime. Gelido e controllato all’esterno, schiumante rancore e follia all’interno, il film si basa sullo scontro tra due femminilità: la bionda Alice dalla mente fervida, una sensualità un po’ perturbante e qualche cedimento psicologico nel passato; la bruna Céline, timida e rassicurante, più materna e meno carnale, una forza tranquilla direbbe Francois Mitterand.

Grande cura nella fotografia e scenografia per pennellare quadri domestici perfettamente addobbati con gli arredi di tonalità di colore chiaro, studiati nei dettagli da mogli che non hanno altra possibilità di esprimersi.  Quello che resta loro è il governo del proprio nido perfetto, rincorrendo ossessivamente i figli, nell’attesa del ritorno del marito dal lavoro ogni sera. Non a caso il saluto mattutino al consorte lavoratore è un rito più volte rilevato dalla macchina da presa del regista belga. Le case gemelle sono gabbie pastello in cui le donne di Masset-Depasse possono impazzire piano piano, discendere i gradini della paranoia e dell’ossessione. Una siepe divide i due giardini, un passaggio scoperto dai bambini permette di passare da una all’altra realtà, dal lutto dei Geniot al tranquillo ménage dei Brunelle.

Anche se il gioco a due sembra a un certo punto invertirsi, mostrando il personaggio di Alice sempre più paranoico, insicuro e in preda al delirio mentre Céline cerca di riavvicinarsi, di ricostruire la loro intima relazione minata dal terribile incidente e dalle sue accuse iniziali. La fiducia si trasforma in sospetto, poi arriva il momento dell’indecisione e del senso di colpa, fino a una parte finale in cui tutto potrebbe perdere coerenza e fluidità, come spesso accade nei thriller recenti, invece Masset-Depasse conduce con disinvoltura lo spettatore attraverso i vari cambi di prospettiva, mantenendo la giusta atmosfera di tensione fino in fondo, col supporto della partitura musicale di Fréderic Vercheval.

Scioglie i nodi irrisolti, avvolgendo le protagoniste con una regia classica che spesso si concentra sui dettagli, un bicchiere, una tazza di tè, l’orsacchiotto di peluche del piccolo Théo, elementi che rimarcano le svolte della vicenda. Tra Claude Chabrol e David Lynch, spinge sul voyeurismo per raccontare l’evoluzione morbosa del rapporto tra le due donne, lasciandoci spiare quello che accade tra le mura domestiche, nascosti dietro una parete o nell’ombra di una finestra.

Quest’opera franco-belga convince anche grazie a due interpreti di straordinario livello. Veerle Baetens, attrice e cantante belga molto credibile nel dare corpo una donna ambigua e fascinosa, nel solco delle Tippi Hedren e delle Kim Novak: il pubblico di tutto il mondo ha avuto modo di conoscerla grazie al ruolo di Elise in Alabama Monroe – Una storia d’amore, film del connazionale Felix Van Groeningen nominato agli Oscar 2014 nella categoria miglior film straniero (l’anno del trionfo della Grande bellezza di Sorrentino) che le fece ottenere un Efa e un premio come miglior attrice al Tribeca Film Festival di New York. La bruna Anne Coesens è la musa di Olivier Masset-Depasse, con il quale ha girato cinque film, a partire dal primo cortometraggio Chambre Froide nel 2000 fino a Illégal nel 2010, drammatica storia di una madre e un figlio emigrati in Belgio dalla Russia, che ne lanciò la carriera internazionale.

La grande interprete belga lascia interdetti, non lasciando intendere la sua reale natura fino alla fine; lavora di sottrazione con sguardi, impercettibili movimenti facciali, espressioni di impassibile eloquenza. Un bel duello tra grandi attrici. La scena finale sembra sbandare fuori dai confini del genere del noir psicologico, sembra voler essere rassicurante. Ma, anche qui, l’apparenza nasconde una sostanza diversa. Una coda che in realtà scava nel profondo dell’animo dello spettatore, lasciando dietro di sé un profondo senso di inquietudine.

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