Gipsy Queen, la boxe e la lotta per la vita nel film Hüseyin Tabak

by Nicola Signorile

Non si può resistere ai film di boxe. Continuiamo a provarci, senza riuscirci mai. Il riscatto, l’umiliazione, il coraggio, la lotta per sopravvivere: lo sport più cinematografico che ci sia porta ogni volta in scena tutto questo, e molto altro, riuscendo spesso a coinvolgerci e a emozionarci. Come accade con Gipsy Queen, coproduzione tedesco-austriaca, diretta e sceneggiata dal tedesco di origine turca Hüseyin Tabak, passato nel Panorama Internazionale del Bif&st 2020. Non un’opera particolarmente originale o innovativa dal punto di vista del linguaggio, ma coinvolgente e di buon impatto emozionale, soprattutto grazie all’intensa prova dell’attrice Rom Alina Serban e a un’attenta costruzione dell’ambiente in cui si svolge la vicenda di questo Million dollar baby in salsa gipsy-teutonica.

L’inizio del film, in Romania, con la giovane Ali urlante mentre sta per dare alla luce il secondo figlio, per poi venire ripudiata dal padre e dalla comunità in cui è cresciuta, lascerebbe presagire un racconto di miseria e sconfitta.  In qualche modo lo è, ma in sostanza privo di accenti melodrammatici e calato in un contesto del tutto differente. La vicenda umana di Ali si sposta nella opulenta Germania, in particolare nella città di Amburgo, dove una madre single di etnia Rom non è una cittadina come le altre. Condizione di pregiudizio e assenza di diritti estendibile a qualunque paese dell’avanzatissimo Occidente, oggi.  Era la Gipsy Queen, la regina di tutti i Rom nella sua comunità, adesso è costretta a fare lavoretti di fortuna per sfamare Esmeralda, di 11 anni, e Mateo, di 5, i suoi due bambini. Sacrifici che è pronta ad affrontare per dare loro un avvenire di maggiori opportunità in un paese straniero.

 Lo stesso paese però in cui nessuno si sognerebbe di affittare un appartamento a una donna Rom con due bambini e senza un lavoro stabile: circostanza che dà luogo alla strana convivenza con la stramba ballerina-performer, Mary (Irina Kurbanova), ne nasce una famiglia allargata che regala i pochi momenti di gioia e spensieratezza nella vita della protagonista. Sono i disegni a pastello di Esme a mostrarci scene della vita precedente di Ali. La piccola ha talento e vorrebbe essere trattata come una donna, mentre viene pesantemente bullizzata a scuola; suo fratello Mateo è ancora bisognoso delle cure della mamma.

Arrivare alla fine del mese è difficile: Ali è una di quelle con cui tutti pensano di potersela prendere impunemente (vedi la responsabile che le decurta la paga senza motivo), una donna comune con una forza interiore non comune. Un  personaggio tostissimo con un grande cuore con cui si empatizza subito, leonessa che cerca di proteggere in ogni modo i suoi piccoli, orgogliosa, si cimenta in lavoretti di fortuna come scavare una buca per una piscina abusiva (con tanto di fuga notturna dalla polizia) o abbattere muri di case. Viene in mente la volitiva Maggie Fitzgerald di Million dollar baby e il Rocky Balboa degli inizi, costretto a fare il lavoro sporco per il boss del quartiere, prima di trovare la sua via. Le scene in strada, in cui giovani e vecchi immigrati elemosinano una giornata di lavoro, sono una fotografia realistica di quello che avviene ogni giorno nelle nostre città, una finestra sul sottoproletariato immigrato che sopravvive, invisibile, ai margini della società capitalistica. Il film però scorre senza cedimenti retorici, introducendo l’elemento sportivo, dopo aver ritratto al meglio il personaggio di Ali e il microcosmo che le gravita intorno.

La donna trova un lavoro come donna delle pulizie nel famoso club sotterraneo Ritze di Amburgo, nel cui seminterrato c’è un ring. Continua a muoversi in un contesto di evidente squallore, tra gli appiccicosi tavolini del bar, feste di addio al celibato e persone che si maltrattano continuamente. Tabak dipinge un quadro non proprio amabile in cui immergere la storia della sua eroina. Con tanto di (futuro) mentore che appare per la prima volta sullo schermo mentre è oggetto di una fugace fellatio nel seminterrato del locale. Tanne è il proprietario della baracca, un ex-pugile rigonfio di rancore e rimpianti. Un perdente con una improbabile capigliatura, interpretato da un irriconoscibile e imbolsito Tobias Moretti, attore austriaco noto al pubblico italiano soprattutto grazie al telefilm il commissario Rex.

Il volto di Ali cambia davanti al sacco: quando per la prima volta torna a colpirlo, dopo anni, scopriamo che il ring è la sua casa, il ventre materno. Il padre la costringeva a salire sul ring incinta; la “gipsy queen”,  come la chiamava la sua gente, era la loro speranza. Una responsabilità troppo pesante riposta fin da piccola sulle sue spalle, un rapporto controverso con un padre che aveva già scritto il suo destino. Tracce della vita passata inserite in alcuni flashback, forse la cosa meno riuscita della pellicola. Tanne intuisce il talento nella nobile arte di Ali che si rivela qualcosa di più di una sparring partner per la campionessa di turno.

Il rapporto tra allenatore e boxeur si fa via via più profondo; diverte la scena del terzo grado dei due bambini all’allenatore in totale imbarazzo. Non mancano sequenze drammatiche: la donna rischierà di perdere la custodia dei propri figli. Ma Alina Serban è perfetta nell’incarnare una underdog che nonostante le botte si rimette sempre in piedi. Qualcuno su quel ring combatte per qualcosa di più di un titolo, Ali lotta per la vita. La boxe è calzante metafora della lotta quotidiana per la sopravvivenza, dei tentativi di superare le difficoltà contando solo sulle proprie forze. Si fa il tifo per lei senza remore, diventa subito la beniamina del pubblico; le sedute di allenamento sono uguali a tante altre viste in mille pellicole – da Creed a The Fighter oltre ai film già citati –  ma non per questo sono meno coinvolgenti. “Questo è il tuo round, questa è la tua vita!”, la sprona Tanne e negli occhi di Ali vediamo materializzarsi anni di sconfitte e umiliazioni e la voglia di mettersi tutto alle spalle. L’incontro finale molla gli ormeggi e, tra ralenti e musica incalzante, si avventura sul terreno accidentato dell’epica senza sfigurare. Non sappiamo che ne sarà di Ali e dei suoi bambini. Hüseyin Tabak lascia sul campo più interrogativi che risposte. Ma in fondo non è quello che deve fare il cinema?

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