Gli infedeli, su Netflix la commedia a episodi di Stefano Mordini

by Nicola Signorile

C’era una volta il film a episodi. Genere molto in voga in Italia negli anni 50 e 60 in cui si cimentano i migliori scrittori e registi del cinema italiano. La commedia di costume è il soggetto prediletto: vizi e virtù dell’Italia del boom economico, i rapporti uomo-donna, il sesso con le prime scabrose aperture, il cinismo e la tracotanza di certi italiani, infingardi figuri con i volti che tutti ben conosciamo, Sordi, Gassman, Walter Chiari, Ugo Tognazzi e tanti altri.

Il breve richiamo a un corposo capitolo del nostro cinema che ha prodotto capolavori di sagace ironia o di feroce satira come I complessi, I mostri, Gli italiani e le donne, Boccaccio 70, Se permettete parliamo di donne, Controsesso, Le bambole, Vedo nudo, citandone solo alcuni, è doveroso. Perché Gli infedeli di Stefano Mordini, dal 15 luglio su Netflix, si riallaccia anche attraverso il commento musicale a quella gloriosa tradizione; ispirazione che, purtroppo per il film, alza immediatamente le aspettative oltre il livello di guardia. Inoltre, si tratta di un remake dell’omonima commedia di successo francese del 2012 con Jean Dujardin e Gilles Lelouche, a propria volta dichiaratamente ispirata a I mostri di Dino Risi.

 Quattro gli episodi principali: la scena si apre su un prologo scoppiettante in cui la macchina da presa segue la coppia Massimiliano Gallo-Euridice Axen (peccato vederli così poco in scena) in procinto di partire per una vacanza alle Maldive. Attacco e difesa, pressing femmineo e catenaccio mascolino: oggetto del contendere il telefonino spento e le mancate risposte, di lui, la sera prima. Scuse accampate, un uomo che evidentemente mente a oltranza, una donna vittima che decide (forse) di credergli contro ogni evidenza. Nonostante il tema ritrito e un rapporto uomo-donna piuttosto datato (ma che probabilmente esiste, e insiste, ancora nella società italiana), l’incipit funziona, con lo smartphone a fare da testimone scomodo e rivelatore.

Gli echi di Perfetti sconosciuti sono vivi più che mai; Gli infedeli condivide con il campione d’incassi di Paolo Genovese uno degli sceneggiatori, Filippo Bologna (gli altri sono lo stesso Mordini e Riccardo Scamarcio) e uno dei protagonisti, Valerio Mastandrea. Non ci si discosta molto dal copione nel primo episodio con le discussioni sull’infedeltà maschile in una cena tra amici, durante la quale è una frase (“Se un uomo tradisce, tradisce solo a metà”), rubata a Se mi lasci non vale di Julio Iglesias, pronunciata da uno Scamarcio mascalzone più che  mai (ma quanto è simile a tanti uomini italiani che conosciamo?) a scatenare un faccia a faccia, per la prima volta a cuore aperto, tra Mastandrea e la compagna Valentina Cervi, non proprio a suo agio con i toni del film (era la protagonista di Provincia Meccanica di Mordini nel 2005).

Un confronto serrato, prima per le strade di Roma, dove ricorda un po’ quelli del recente Figli, poi in un interno borghese, alla Eyes Wide Shut. “L’ho fatto per due ragioni – dice Paolo-Mastandrea – mi piace la fregna”, “Sei una merda”, risponde lei. “Ecco, questa è la seconda ragione”, conclude l’uomo, prima di vedere il proprio castello di carte andare giù, tra confessioni a mezza bocca e un complesso del confronto fallico che emerge senza ritegno. Riccardo Scamarcio con i dentoni regala un pezzo di bravura nei panni di un venditore malato di sesso a una convention aziendale. Un’occasione, alla ricerca della scappatella extraconiugale notturna, per provarci con tutte tutte, dalla avvenente receptionist dell’hotel alle colleghe, più o meno attraenti, in un progressivo ridimensionamento delle pretese, che vede un collega precederlo di poco ogni volta. L’attore si imbruttisce, scivola sempre più nel ridicolo di una figura maschile miserevole, sbeffeggia la sua immagine pubblica di impenitente tombeur de femmes, affibiatagli dalle cronache mondane, nell’unico momento in cui un personaggio del film sfiora i mostri di Tognazzi e Gassman.

Poi Gli infedeli perde forza con l’episodio dell’impiegato dell’anagrafe che evade dalla monotonia della vita di coppia cercando soddisfazioni nei glory hole di squallidi night club. Mastandrea, grigio e calvo travet represso, non ha certo nel trasformismo una delle doti principali. I toni trattenuti e malinconici della recitazione si confanno a un episodio che tuttavia, senza gli sguardi di Marina Fois, bravissima a dare umanità al suo personaggio, lascerebbe solo il ritratto di un triste ménage domestico. Tra fantasmi del tradimento e allucinazioni si muove il quarto episodio con una moglie, Laura Chiatti, che vede, o crede di vedere, il marito (Scamarcio) con un’altra donna: inseguimento e svelamento, inganno e raggiro, visioni oniriche o miraggi da stress per una coppia che è un classico del cinema italiano, dalla serie Compagni di scuola al mocciano Ho voglia di te, da Manuale d’amore 3 alla saga famigliare di Io che amo solo te.

Più basato su gag e situazioni comiche il precedente d’Oltralpe, più desideroso, il nostro, di raccontare le miserie del maschio italico attraverso dialoghi, recitazione e una messa in scena impeccabile, di scendere più in profondità, però senza mai riuscire a graffiare sul serio.

Quella di Mordini – un passato remoto da documentarista con esperienze di fiction similari (Acciaio, Provincia meccanica) e uno recente da autore di noir come Pericle il nero e Il testimone invisibile, entrambi con Riccardo Scamarcio protagonista – è una commedia-non commedia, in cui si assiste, con un sentore di già visto, a una fin troppo consueta galleria di meschinerie, appetiti machisti e esasperati narcisismi. Lo si fa, senza ridere quasi mai. Effetto ricercato, certo. Non a caso, la soddisfazione degli appetiti sessuali maschili non viene mai mostrata, è lasciata fuori campo. La potenza comica delle situazioni sfuma sul più bello, la risata ci si spegne in volto ancor prima di manifestarsi. Il tradimento è un’ossessione tutta mentale, egotica, “noi facciamo sesso con noi stessi”, dice uno dei protagonisti nella cena a tre – Gallo, Scamarcio, Mastandrea – che funge da epilogo: le donne sono solo una proiezione del proprio io, come mostra la scena finale.

Allo stesso tempo se questa scelta di spogliare la commedia dell’elemento “mostruoso”, dell’effetto comico, poteva essere interessante sulla carta, in realtà non permette al film di decollare. Lascia lo spettatore spaesato, incerto sul cosa pensare davanti a episodi che talvolta falliscono anche lo svelamento finale, essenziale in ogni racconto breve. Questa sospensione, frutto della volontà di entrare nella testa di questi maschi, più di ogni altra cosa, non sfocia nel divertimento o nella satira. Tira il freno del grottesco, il trasformismo è solo accennato (con la pelata di Mastandrea e i dentoni di Scamarcio) senza affondare il colpo, l’opera non si lascia mai andare e finisce per non raccontare nulla di nuovo. Assente ingiustificata è la contemporaneità, un rapporto di coppia moderno, con mariti e mogli fuori dalle solite gabbie – uomo donnaiolo e infedele, donna credulona e tradita – viste e riviste al cinema. Finisce per non raccontarci quindi Gli Infedeli, come invece sapevano fare benissimo le pellicole citate all’inizio di questo articolo. Grazie alla vis comica dei suoi personaggi, alla capacità di dissacrare, di essere feroci e corrosivi fino in fondo.

Peccato perché la confezione è di primo livello. A cominciare dai produttori, la Indigo Film di Nicola Giuliano, artefice di molti successi di Paolo Sorrentino, Ht Film di Viola Prestieri (già alle spalle di Fortunata di Castellitto e di Euforia di Valeria Golino, la prima volta della coppia Mastandrea-Scamarcio) e da Scamarcio con la sua Lebowski (insieme a Rai Cinema). Mordini fa muovere i suoi personaggi in contesti borghesi – camere d’albergo, ristoranti, appartamenti lussuosi – senza rimarcare riferimenti all’ambientazione romana, distinguendosi da tante analoghe produzioni nostrane. La sua regia è fluida, persino elegante, alterna grigiore quotidiano e trasgressione notturna (specialmente nell’episodio Mastrandrea-Fois).

Poi, le interpretazioni, sin dal breve, gustoso, vis-à-vis Gallo-Axen, Mastandrea, pur sempre uguale a se stesso, la già lodata Marina Fois, una Laura Chiatti in fase di passaggio da fatalona a moglie tradita e Alessia Giuliani occhialuta, vittima delle avance disperate di Scamarcio. L’attore pugliese si inerpica in un triplice ruolo di produttore, sceneggiatore e attore protagonista. Si mostra ancora una volta capace di giocare sugli stereotipi, di variare toni e movenze. Senza dubbio, i momenti in cui è in scena sono i più riusciti di un film che si lascia guardare senza sforzo, ma senza riuscire infine nel suo intento, rinverdire i fasti della commedia a episodi e raccontare qualcosa di nuovo sull’infedeltà e sul maschio italiano. Una occasione mancata.   

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