Gli Oscar e il 2019 da urlo per i cinefili. Hollywood si inchina a Bong Joon-Ho

by Nicola Signorile

Hollywood si inchina a Bong Joon-Ho. Dopo annate dominate dal politically correct, l’Academy scrive una pagina rivoluzionaria nella storia degli Oscar. Oltre allo scontato riconoscimento al miglior film straniero, da quest’anno il miglior film internazionale, Parasite porta a casa i tre premi più importanti della serata: film, regia, sceneggiatura originale, lasciando a bocca asciutta non proprio gli ultimi arrivati.

Devono accontentarsi delle briciole The Irishman di Martin Scorsese (10 nomination e zero statuette), C’era una volta…a Hollywood di Quentin Tarantino (10 nomination e due statuette, per Brad Pitt, miglior attore non protagonista nei panni della controfigura Cliff Booth e le scenografie di Barbara Ling e Nancy Haigh) e il favoritissimo 1917 di Sam Mendes (10 nomination e tre Oscar tecnici per effetti speciali, sonoro e la portentosa fotografia di Roger Deakins); non va meglio a quello che avrebbe dovuto essere l’asso pigliatutto della 92a edizione, Joker di Todd Phillips, Leone d’Oro a Venezia, arrivato al Dolby Theatre con 11 candidature tradottesi in due soli premi, per Joachin Phoenix e per la colonna sonora della islandese Hildur Guðnadóttir.

Ogni pronostico è sovvertito: una sonora risposta a chi ha sempre accusato gli Oscar di badare poco alla qualità artistica e molto alla forza politica delle produzioni, di premiare narrazioni concilianti (Green Book) o soltanto storie di razzismo e diversità (Moonlight o La forma dell’acqua). Prima candidatura a miglior film per una produzione sudcoreana e prima vittoria per un film non in lingua inglese, non considerando The Artist, pellicola muta, di produzione francese, ma considerato di lingua inglese. Stavolta è stata Cannes a scommettere sul cavallo giusto: Seoul conquista Hollywood con una tragicommedia in cui nessuno è davvero innocente, un piccolo film politico che affonda il bisturi nelle diseguaglianze  della società contemporanea. Il trionfo dall’Estremo Oriente colpisce ancora di più al tempo del Coronavirus: mentre in Italia si guarda con sospetto al continente asiatico, Hollywood dà un segnale di apertura totale nei confronti di un mercato enorme come quello asiatico, e sudcoreano in particolare, perché industria e arte non vanno mai disgiunti quando si parla della Mecca del cinema. I pochi sussulti in uno show piuttosto noioso, come è spesso accaduto negli ultimi anni, sono regalati dai numeri musicali e dalla faccia di Bong Joon Ho, sempre più stupefatta nel corso della notte più bella della sua vita. “Pensavo che dopo il primo premio la serata fosse finita”, ammette. Cita una frase di Scorsese, invita il Dolby ad applaudire il maestro, definisce un onore essere candidato con lui e con Quentin, “che conosce i miei film più di quanto siano conosciuti in Corea”. “Vorrei condividere l’Oscar con tutti voi, spaccarlo in cinque parti. Continuerò a bere fino a domattina”, dice infine strappando l’ennesima ovazione alla platea.

Si può non essere d’accordo con i verdetti, personalmente credo che la regia dovesse premiare finalmente Quentin Tarantino, cineasta per troppo tempo ignorato dagli Oscar. Altra assenza ingiustificabile è Clint Eastwood e il suo Richard Jewell, ancora una volta ignorati dall’Academy (non fosse stato per la nomination a Kathy Bates) mentre il film non avrebbe sfigurato tra le migliori pellicole della stagione.

Un fatto mette tutti d’accordo: raramente la qualità è stata così alta, le nove opere candidate alla statuetta più importante sono tutte di altissimo livello. Disegnano un 2019 da urlo per i cinefili che attraversa generi e stili, dal war movie in finto piano sequenza di Mendes al dramma della separazione di Storia di un matrimonio di Noah Baumbach (Laura Dern è la miglior attrice non protagonista, grazie soprattutto a un intenso monologo dell’avvocato Nora Fanshaw), dalla commedia surreale nella Germania nazista Jojo Rabbit di Taika Waititi all’adattamento letterario in costume Piccole donne di Greta Gerwig, dal potente Joker al gangster movie senile (The Irishman), dall’azione su pista di Le Mans 66 – La grande sfida di James Mangold al capitolo più personale della filmografia tarantiniana. A rispettare in pieno i pronostici sono i premi alle interpretazioni. Per i non protagonisti Dern e Pitt, al primo Oscar da attore (lo vinse da produttore di 12 anni schiavo), anche se Joe Pesci e Al Pacino meritavano quanto se non più del bel Brad. Ai protagonisti Joaquin Phoenix che centra il bersaglio al quarto tentativo, superando come previsto la concorrenza agguerrita di Adam Driver e di Leonardo Di Caprio e Renée Zellweger per la sua Judy Garland nel biopic di Rupert Goold: un’attrice sopravvalutata, spesso tutta smorfie e mossette, alla quale non si può non preferire la talentuosissima Saoirse Ronan o Scarlett Johansson, che vede le due nomination andare in fumo. Ci sarà tempo per recuperare, Di Caprio docet.   

Dicevo dei numeri musicali, esplosivo quello in apertura di Janelle Monáe e Billy Porter; l’attrice e cantante  fa alzare in piedi la platea e si dice “orgogliosa di essere qui, donna nera e queer”. Introduzione al vetriolo di Steve Martin e Chris Rock che poi scompaiono, lo show andrà avanti senza conduzione. Le migliori battute toccano al comico afroamericano: “In sala c’è Mahersahala Ali che ha due Oscar a casa, sai a cosa serve quando lo ferma la polizia? A niente”, poi una stoccata a Scorsese (“bella la prima stagione di The Irishman”) e un tackle sulle caviglie dell’Academy colpevole di non aver nominato donne, “ci sono bravi registi candidati quest’anno, ma manca qualcosa? Un po’ di vagine”.

L’orgoglio black resta tutto sulle spalle di Cynthia Erivo, unica candidata nera a due premi, come attrice per Harriet e per la canzone Stand Up (esecuzione con coro gospel seguita da standing ovation), ma a vincere sarà Elton John, al secondo Oscar con il brano (I’m Gonna) Love Me Again contenuto nel biopic Rocketman.

Inclusione è la parola d’ordine. Mai visti su quel palco tanti presentatori oversize, per la prima volta un ragazzo con la sindrome di Down, Zack Gottsagen, introduce un premio, insieme a Shia LaBeouf, suo co-protagonista nel film In viaggio verso un sogno – The Peanut Butter Falcon. Il neozelandese Waititi ritira il premio alla sceneggiatura non originale di Jojo Rabbit, dedicandolo “a tutti i bambini indigeni nel mondo che vogliono raccontare storie”. Molti riferimenti famigliari nei discorsi di ringraziamento, pochissima politica. Sono gli abiti il manifesto, più delle parole. Spike Lee ricorda Kobe Briant con uno smoking del viola dei Los Angeles Lakers con il suo numero di maglia, il 24, ben in evidenza. Natalie Portman sceglie di indossare una cappa nera con ricamati in oro sopra i nomi delle registe che non sono state candidate. Jane Fonda ricicla un abito messo nel 2014 a Cannes, usa gioielli scelti perché “con oro estratto in modo etico”, spiegherà su Instagram, e porta, appoggiato sulla spalla, il cappotto rosso che indossa durante le proteste, per le quali è finita più volte in manette. Due eccezioni: Brad Pitt che, con in mano la statuetta appena ricevuta da Regina King, esordisce così: “Mi hanno dato solo 45 secondi, che sono sempre 45 secondi in più rispetto a quelli che il Senato ha dato a John Bolton”, un attacco non proprio velato al Senato Usa per non aver ammesso testimoni al processo d’impeachment contro il presidente Donald Trump. Poi, all’improvviso, del socialismo a Hollywood: “Il nostro film racconta le difficoltà di quelle persone che tutti i giorni timbrano un cartellino e vanno al lavoro per la loro famiglia. Credo che le condizioni miglioreranno quando i lavoratori di tutto il mondo si uniranno”. A parlare è Julia Reichert, Oscar al miglior documentario con Steven Bognar per American Factory (Made in USA – Una fabbrica in Ohio in italiano), primo film prodotto dalla neonata casa di produzione di Michelle e Barack Obama. Chissà se la coppia d’oro sarà stata d’accordo con la chiamata “alle armi”, però ha twittato subito le congratulazioni ai due registi.

 Il 48enne Eminem sveglia la platea con la sua hit-manifesto Lose yourself, cantata a squarciagola da tutti gli artisti in sala; Billie Eilish commuove sulle note di Yesterday mentre scorrono le immagini del tradizionale In memoriam, quest’anno particolarmente ricco di stelle scomparse, Stanley Donen, Rutger Hauer, Doris Day, Kirk Douglas e, per l’Italia, Franco Zeffirelli e il costumista Piero Tosi. Non contando la Ferrari protagonista di Le Mans 66 e In ginocchio da te di Gianni Morandi nella soundtrack di Parasite, gli unici scampoli d’Italia sono il premio alla carriera di Lina Wertmuller, consegnato in anticipo a ottobre, e le immagini delle pellicole di Fellini, Visconti, Rossellini che introducono l’Oscar al miglior film internazionale, consegnato da Penelope Cruz; l’attrice spagnola non può regalare la statuetta all’amico Pedro Almodovar in lizza con Honor y gloria, sconfitto anch’egli da Bong Joon-Ho.

C’è gloria anche per Piccole donne che incassa i migliori costumi di Jacqueline Durran e per Bombshell, premiato per trucco e acconciature. Il film di Jay Roach (sarà presentato il 21 marzo in anteprima al Bif&st 2020), con l’irresistibile trio Nicole Kidman, Charlize Theron e Margot Robbie, racconta lo scandalo molestie nella emittente televisiva americana Fox News, vicenda che ha già ispirato la serie tv The Loudest Voice con Russell Crowe.

Notevole il discorso di Phoenix, quasi una miniseduta dall’analista. Sottolinea che il cinema “ci dà l’opportunità di usare la nostra voce per i senza voce, gli esseri umani al loro meglio sono creativi e ricchi di immaginazione, e possiamo creare, sviluppare e applicare sistemi di cambiamento benefici per tutti gli esseri senzienti e l’ambiente”. Ricorda il fratello River, astro nascente di Hollywood  morto a 23 anni e poi si confessa: “Sono stato una canaglia per tutta la mia vita, un egoista – dice – sono stato un collega difficile ma tanti che sono in questa sala mi hanno dato una seconda opportunità. Qui viene il meglio dell’umanità”. Meglio tardi che mai.  

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