Il bisogno dell’altro, la fame e l’inganno: perché Pinocchio di Comenicini ha ancora tanto da dire

by Paola Manno

Ci sono film che non hanno età, o forse, invece, hanno sempre la stessa età. Ci sono film bambini che continuano a urlare la gioia e la bellezza, e la poesia –non dimentichiamo la poesia- del racconto. Ci sono film che, nonostante la lunghezza alla quale lo spettatore non è più abituato, nonostante effetti speciali datati, funzionano ugualmente e dimostrano di avere ancora tanto da dire, grazie a scelte di scrittura e di regia che fanno del regista un grande autore.

Provate a riguardare “Le avventure di Pinocchio” di Luigi Comencini, insieme a un bambino. Io l’ho fatto insieme a Elisa, 6 anni: mi sono fatta un regalo bellissimo.  

Il film è una miniserie in 6 puntate trasmesse per la prima volta nel 1972, della durata totale di 320 minuti. Uno sceneggiato televisivo che ha il sapore, l’odore dell’infanzia: per quelli della mia generazione, nati negli anni ’80, “Le avventure di Pinocchio” rappresentano probabilmente i primi ricordi legati ai pomeriggi d’inverno. Per noi, la fata turchina ha i capelli viola e il viso della Lollobrigida, una mamma fata, Geppetto ha il volto di Nino Manfredi e Pinocchio, bambino, è un biondino con l’accento fiorentino e un ridicolo vestito a fiori.

Nei miei ricordi di bambina, la storia di Pinocchio è una storia triste, legata ad una musica triste; la colonna sonora di Fiorenzo Carpi è una delle più evocative e potenti di tutto il cinema italiano. Ricordo il fuoco dipinto sul muro da Geppetto, così povero da non aver nemmeno la legna per il caminetto, le tre pere mangiate con la buccia e i semi, il rumore del vento che non smette.  Oggi, rivedere le stesse scene mi fa vivere un film diverso, un film che è un atto sociale, politico. Oggi Pinocchio mi pare un bambino che rivendica il diritto di essere, prima di tutto, appunto, un bambino.

Quello di Comencini è un Pinocchio iperattivo, che non riesce a star fermo, affamato di libertà. Dopo un inizio cupo, con scene girate quasi esclusivamente in interni (la casa buia di Geppetto, la falegnameria di Mastro Ciliegia, una stalla), la prima puntata scoppia finalmente in un vero e proprio inno alla vita con la corsa di Pinocchio, che dopo la visita della fatina lascia il suo corpo di legno e diventa bambino, in un paese finalmente pieno di luce. Il piccolo Andrea Balestri, splendido e talentuoso interprete, si divincola tra le braccia del padre e si getta per le strade del villaggio, accarezza le pecore di un gregge di passaggio, respira l’odore del sapone delle lavandaie, si scontra con gli abitanti incuriositi, ruba un pezzo di formaggio che gusta avidamente, salta nelle pozzanghere di fango, fa persino la pipì davanti a tutti; pare dover scoprire tutti i sensi, il tatto, la vista, l’odorato, il gusto…e il desiderio, su tutti, di scoprire cos’è la vita vera.  La corsa di Pinocchio oggi mi fa pensare a un’altra delle scene più belle che abbia mai letto, ed è quella che io chiamo “la passeggiata di Useppe”.

Ne “La storia”, di Elsa Morante, il piccolo protagonista, Giuseppe, che ha vissuto chiuso in una casa per i primi anni della sua vita, finalmente scopre il mondo durante la prima uscita, portato sulle spalle dal fratello maggiore: un ragazzo con il quale condivide un dono prezioso: “Tu e tuo fratello siete così differenti, che non sembrate nemmeno fratelli. Ma vi rassomigliate per una cosa: la felicità. Sono due felicità differenti: la sua è la felicità di esistere. La tua è la felicità…di tutto. Tu sei la creatura più felice del mondo!”. Come Useppe e suo fratello Nino, ragazzini della borgata che nonostante la guerra cantano la vita, così anche questo Pinocchio ha voglia, bisogno di riprendersi, di andare avanti, la voglia di giocare, di raggiungere il paese dei balocchi, di dimenticare il male. Davanti alla tomba della Fata Turchina, morta di dolore a causa sua, Pinocchio, dopo una notte dolorosa, tira su col naso ed esclama “Si, anch’io però adesso muoio! Ma di fame!”.

Una delle battute che il bambino non smette di ripetere è proprio questa “Ho fame! Ho fame!”. Lo dice a Geppetto, continuamente. Lo urla al vicino di casa, di notte, che di risposta gli getta addosso una secchiata d’acqua gelida, dalla finestra, una scena straziante che ha fatto commuovere la mia piccola spettatrice-bambina che ha urlato –Ma perché? Mi pare che sempre, ad ogni ingiustizia raccontata, questa bambina di 6 anni abbia reagito con costernazione, poi con rabbia.  E allora forse il messaggio è arrivato, un messaggio che io alla sua età non avevo colto ma che forse i ragazzini di oggi, più aperti al mondo, alle notizie in diretta, al mondo degli adulti, sono pronti a capire.

Ma quella stessa battuta “ho fame” è anche, a me sembra, soprattutto un desiderio di vita, d’amore, di bellezza. Pinocchio illumina la vita di Geppetto, pronto ad andare a riprendersi il suo burattino in America, su una barchetta in mezzo a una tempesta. Una visione attenta e poetica di quelli che sono i bisogni dell’altro, ma anche del proprio bisogno degli altri.

Si, fatevelo questo regalo: riguardate questo film insieme a un bambino, guardatelo e ascoltatelo mentre si commuove o va in collera davanti all’imbroglio del gatto e della volpe o alla secchiata d’acqua fredda su un bambino che ha fame. Questo è per me il potere del cinema, e quello di un buon film: non smettere di dire quello che si deve dire.

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