Il cielo sopra Berlino e gli Angeli custodi di una città distrutta

by Giuseppe Procino

Il Cielo sopra Berlino ( titolo originale Der Himmel über Berlin) è tornato nelle sale in occasione delle celebrazioni per i trent’anni dalla caduta del muro. Il restauro in un efficace 4k, glorifica l’immagine di una pellicola che sembra girata per fotografie, ne amplifica la profondità, esalta la cura per un bianco e nero che sembra senza tempo. Sono passati trentadue anni da quando incantava il Festival di Cannes eppure la potenza immaginifica e incantatrice del capolavoro di Wenders resta insuperata.

È un film, questo, che rapisce, un’opera immortale che ha creato una nuova iconografia contemporanea legata agli angeli. Eppure “il cielo sopra Berlino”, non è un film religioso (nello specifico cattolico), semmai è un film sull’essere umano. D’altronde Shakespeare metteva in bocca al suo Amleto “Che capolavoro è l’uomo, quanto è nobile nell’intelletto, un angelo nell’azione e un idolo nel pensiero” e allora, potremmo dire che al massimo il film di Wenders è un ritratto della creatura di Dio che ne porta l’immagine e la somiglianza.

Angeli nell’azione, idoli nel pensiero: sono questi gli Angeli custodi che popolano la Berlino di celluloide del maestro tedesco. Creature che imitano la vita e la osservano, cui è data la malinconia, il desiderio di superare la propria condizione di semplici spettatori.

Damiel s’interroga su cosa si provi nel vivere che si contrappone al semplice esistere, s’interroga sul sentimento affettivo, su cosa sia giusto e sbagliato. La vita è così una non vita, come un film su uno schermo in cui immedesimarsi e sognare, una vita immaginata, pensata ma mai da scrittore. Eppure la vita è qui, adesso.

Il cielo sopra Berlino è la riscoperta dell’infanzia, età privilegiata dello sguardo puro, breve, e poi la riflessione sul tempo, come male incurabile, inarrestabile con il quale bisogna imparare a convivere. Ecco allora che il tempo diviene memoria, nelle sembianze di Curt Bois, Omero contemporaneo, poeta della pace e ci serve per non dimenticare chi siamo stati, gli errori commessi, perché il male non si ripeta. In 127 minuti Wenders intesse un flusso continuo di riflessioni, pensieri, temi universali, realizza un film libero, ripercorre le orme degli esordi e dell’onda del Neuer Deutscher Film. È una pellicola che nasce da un’esigenza, quasi psicanalitica di rincontrare se stesso, dopo la pausa americana e andare all’indietro, quasi per prendere la rincorsa. Wenders non può tornare bambino, può tornare però alla libertà e all’incoscienza del giovane autore.

Mai una pellicola ha raggiunto delle vette così alte di esistenzialismo, di poetica bellezza. Fondamentale è stato l’apporto ricevuto da Peter Handke, che si era rifiutato di collaborare alla sceneggiatura ma che ha creato per il regista dei monologhi e qualche dialogo. Le poesie dell’autore Serbo-Tedesco erano già scritte e Wenders è autorizzato a utilizzarle. La parola diviene protagonista, crea situazioni sconnesse, un viaggio tra differenti umanità di diversa origine e provenienza. Uno straniamento onirico e spiazzante, un bellissimo sogno, in cui convivono qua e là citazioni colte ma allo stato grezzo. C’è un rimando seppur lontano a Fellini, nella lunga fila di auto, nel circo, nell’essenza del ricordo, forse perché nato come film del “blocco dello scrittore” (perché quasi su auto imposizione deve girare una pellicola avendo una troupe sotto contratto e disimpegnata per un anno) o al contrario del “ho tutto in testa ma non riesco a dirlo”.

Lo immaginiamo così Wenders: in giro per una Berlino divisa, in stallo, mentre osserva la vita passargli attraverso, sotto la Siegessäule, con il suo taccuino annotando pensieri, sensazioni, cogliendo stupito la presenza degli angeli onnipresenti, nelle architetture, sui monumenti, nelle chiese e nelle poesie di Rilke che popolano le sue letture.

La Berlino del titolo non è un richiamo nazionalista, non è un’esaltazione dello spirito tedesco, ma una descrizione sentimentale del complesso mosaico di umanità che popola una città distrutta, molto prima che diventasse un perenne groviglio di cantieri. Il cielo sopra Berlino è un invito alla non rassegnazione per un popolo che sta pagando le colpe della storia. Lo spettatore diviene Damiel e osserva senza mai sbucciarsi le ginocchia, senza mai giocare per il rischio che questo accada. Allora, non basta osservare, nel bene e nel male bisogna agire, essere attori, come il tipo disperato nella metropolitana, che tocca il fondo, ma vuole rialzarsi. È questo l’augurio che Wenders fa al suo popolo, a quella Berlino decadente, che porta addosso le cicatrici visibili dei conflitti mondiali, del mostro Nazista e che ha bisogno di “conquistare una storia, trasformare quello che sa grazie al suo sguardo senza tempo”. È una città divisa in due, demoralizzata, umiliata da un muro inutile e terribile, “che è stata abbastanza assente, abbastanza esclusa dal mondo” e che deve “Tuffarsi nella storia del mondo, anche solo per prendere in mano una mela”. La Germania che deve ancora conquistare i propri colori.

Il Cielo Sopra Berlino diviene così un enorme quesito esistenziale che si risolve nello spirito dell’azione, unica maniera per dare un valore al tutto e per cambiare le cose. C’è una malinconia devastante, palpabile, tangibile in ogni chiaroscuro, in ogni suono o pensiero: questa malinconia è il desiderio della vita, con le sue gioie, i suoi dolori, fatta di esperienza, di sensazioni.  È lo spirito della genesi stessa del progetto, privo di un copione, di una vera trama. Un film tutto da inventare, partendo solamente dai testi di Handke, che sono l’unico punto fisso, come ad esempio la presenza di Peter Falk, arruolato per interpretare se stesso, divenuto nel corso delle riprese un ex angelo.

Bruno Ganz, Otto Sander, Curt Bois, Peter Falk immortali grazie a questa pellicola.

Un viaggio, un sogno, un invito, una dedica, il grande cinema.

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