Il giovane Ahmed e quell’Europa ancora non raccontata

by Paola Manno

Il cinema europeo aveva bisogno di un film come “Le jeune Ahmed”, girato a Liegi dai fratelli Dardenne, premio alla regia all’ultimo festival di Cannes. Vigliaccamente tradotto con “L’età giovane” perché “Il giovane Ahmed” sarebbe stato troppo diretto, troppo islamico per il pubblico italiano. “L’età giovane” è un titolo romantico, fuorviante, politicamente corretto, che ha dentro una speranza. Il titolo originale è invece neutro, secco, diretto e insieme sacro, io credo, per i registi: questa è la storia del giovane, giovanissimo Ahmed, tredicenne, figlio di emigrati musulmani in Belgio, radicalizzato da un imam.

Davanti a questi titoli martoriati, falsati, osceni, penso sempre a Jacques Prévert, alla sua Barbara, ai versi Oh Barbara, quelle connerie la guerre, tradotti nelle prime edizioni con edulcorate, blande ed educatissime “che sciocchezza” o “che cosa stupida” è la guerra, ma che il poeta ostinatamente costrinse gli editori italiani a correggere con il termine che egli aveva scritto, e che era esattamente “Oh Barbara, che cazzata è la guerra”.

Il titolo, in questo film, è quanto mai importante perché tutto è incentrato sul giovane Ahmed Abou Salah, persino sul suo nome che richiama quello di Salah Abdeslam, giovane jihadista che ha fatto tremare l’Europa intera durante i cupi mesi degli attacchi terroristici a Parigi e Bruxelles.

In una recente intervista i fratelli Dardenne hanno dichiarato che girare un film come “Il giovane Ahmed” è stato un bisogno. Il cinema sociale ha delle urgenze che quello commerciale ignora. È il momento di raccontare questa storia, di parlare di un giovane cresciuto nel cuore dell’Europa da genitori aperti, tendenzialmente ben integrati, che però viene attratto dalla fede estrema e da un senso di giustizia che nasce da un disagio.

Proprio tutto ruota attorno al protagonista, la telecamera non se ne stacca mai. Idir Ben Addi, nato a Bruxelles nel 2005 e alla sua prima esperienza attoriale, è un interprete straordinario.  Il suo sguardo assente, mai fisso su altre cose, è di un’intensità disarmante. Ahmed vive in un mondo tutto suo, è una monade che non ha, non vuole contatti con l’altro. Il suo malsano rapporto con la religione lo fa diventare una cosa chiusa, quasi un robot programmato per il male. Ahmed che armato di coltello, urlando -Allah è grande, tenta di uccidere la sua insegnante considerata infedele perché insegna l’arabo attraverso le canzoni, e non i versi sacri del Corano. Lo vediamo frequentare il doposcuola, rimproverare le sorelle per gli abiti troppo succinti e la madre che ha problemi d’alcolismo, lo seguiamo nella sua cameretta, davanti a video jihadisti e alla foto di un cugino martire, il suo modello ispiratore. Siamo con lui davanti alle infinite, puntuali, metodiche, fredde preghiere, durante le abluzioni, gli esasperanti lavaggi per purificare un’anima che tende all’immortalità. Seguiamo un corpo bambino attraversare strade di un’Europa che non si vede, non si sente, attraversare il mondo con la testardaggine della sua adolescenza infelice, e che a un certo punto si relaziona con gli altri: gli educatori del centro di detenzione, una psicologa, una ragazzina bionda che potrebbe, attraverso i primi palpiti d’amore, portarlo lontano dal male. Affianco a lei lo spettatore spera con tutto il cuore che il ragazzo Ahmed cambi, che qualcosa di tenero e bello possa spalancargli la testa, il cervello, il cuore, gli occhi, mentre Ahmed resta lì fermo, chiuso nelle sue certezze, ragazzo senza speranza.

Perché? Qual è il modo? Davvero non c’è speranza? Molte le domande alle quali i registi non danno una risposta. Jean-Pierre e Luc Dardenne raccontano una realtà che esiste, che è viva e che chiunque, in questi ultimi anni, si è domandato come affrontare.  Il boato degli spari nel Bataclan lo sentiamo ancora, tiene viva la nostra rabbia europea. I morti nella metro di Maelbeek sono un ricordo che non si cancella. Eppure davanti alla freddezza, all’assurda barbarica coerenza di Ahmed, più forte della ragione è, nello spettatore, il desiderio che lui possa cambiare. Perché, io credo, nell’indole dell’uomo che è capace di restare uomo, è la speranza il principio su cui si fonda il vivere in comunità. Speranza legata all’età giovane del protagonista, che è però anche Ahmed, arabo, aspirante terrorista. È il corpo di Ahmed che non abbandoniamo per tutta la durata del film, un corpo che potrebbe essere una bomba, che potrebbe uccidere perché per lui “la morte è come una puntura di insetto”. Davanti al suo corpo caduto troviamo forse l’unica risposta, nel suo chiamare mamma, mamma tre, quattro volte, come il bambino che è, davanti alla paura della morte che diventa cosa vera.

Il corpo di Ahmed nel quale, forse, si ritrova l’Europa non ancora raccontata: sconfitta, ferita, ma con gli occhi, per la prima volta, vivi.

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