“Io amo le storie radicali”. Valentina Pedicini racconta Faith, il doc sui guerrieri della luce oggi alla Festa di Cinema del Reale

by Nicola Signorile

Di sconfinamenti e sperimentazioni vive la Festa di Cinema del Reale, la finestra pugliese che da 17 anni apre squarci sul miglior cinema documentario d’autore, sotto la guida di Paolo Pisanelli e con la benedizione della leggendaria Cecilia Mangini. Visioni alternative e spesso radicali come quelle che apriranno oggi la Gold Edition 2020, tra Schermo Pazzo in Terrazza e il Fossato del Castello Volante di Corigliano d’Otranto, Honeyland di Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov, Quarantine Scenario di Alioscia Bisceglia dei Casino Royale e Faith di Valentina Pedicini.

Tra i registi ospiti quest’anno Piero Li Donni con La nostra strada, Miglior Film al Biografilm Festival di Bologna; Danilo Monte con Nel mondo, Marco Antonio Pani con Padenti – Foresta, Francesco Corsi con Caterina e Elisa Flaminio Inno con la serie Donne di terra. Tra i film stranieri si segnalano anche Pj Harvey – A dog called Money di Seamus Murphy, Psicomagia – Un’arte per guariredi Alejandro Jodorowsky e Fabulous di Audry Jean Baptiste, frutto della collaborazione con Salento Rainbow Film Fest. Il programma si chiuderà venerdì 31 con Auguri Cecilia!, per celebrare i 93 anni di Cecilia Mangini, pioniera del documentario in Italia

Valentina Pedicini, regista brindisina, dopo Dal profondo, che raccontava dell’ultima minatrice sarda e l’esordio nella finzione Dove cadono le ombre, trasporta il pubblico nel mondo altro della comunità dei Guerrieri della Luce: 22 persone che tra disciplina e meditazione, cura del corpo e arti marziali, dal 1998 vivono secondo rigide regole monastiche sulle colline marchigiane, limitando al minimo l’uso della tecnologia e i contatti con l’esterno, “in attesa della battaglia finale”. Un monastero in cui convivono e si intrecciano la fede cristiana, discipline orientali, ferree ritualità e musica techno, un universo parallelo, straniante e affascinante, ritratto dalla regista con cura e passione, dopo lunghi mesi al fianco dei monaci guerrieri.

Unico film italiano in concorso al prestigioso festival IDFA di Amsterdam, “la Cannes dei documentaristi”,  poi la vittoria al Docs di Barcellona, la Berlin Critics’ Week, in Italia il Biografilm di Bologna e il premio Nuove impronte allo Shorts International Film Festival di Trieste (in giuria i fratelli D’Innocenzo). Finalmente la Puglia e Cinema del Reale.

Valentina, partiamo dalla prima pugliese del film.

Faith sta facendo un percorso bellissimo. Più di 20 festival in tutto il mondo, sento un clima bellissimo intorno a questo lavoro. Non era scontato per un documentario complesso, difficile, che chiede tanto allo spettatore. C’è anche una possibilità concreta che venga distribuito in sala in autunno. Ma questa è l’anteprima del cuore per me, la prima proiezione in Puglia mi coinvolge molto emotivamente. Poi, in un festival straordinario come Cinema del Reale, sono felice”.

Come sei entrata in contatto con la comunità dei Guerrieri della Luce?

Undici anni fa frequentavo la scuola di cinema documentario a Bolzano e per caso assistetti a una esibizione di kung fu in pubblico. Entrai in contatto con questa realtà, in particolare mi colpì la figura di Laura, la guerriera che è una delle protagoniste di Faith. Però allora non mi sentivo preparata ad affrontare una realtà così contraddittoria. La storia rimase lì in sospeso per anni, mentre io facevo le mie esperienze. L’idea di tornarci su c’è sempre stata. Sentivo che era una storia importante da raccontare. E due anni fa ho deciso di chiudere il cerchio. Intanto, la comunità si era allontanata dal mondo, la chiave di accesso è stata proprio la conoscenza di 11 anni prima. Finito il film, mi è sembrato un riassunto di tutte le esperienze fatte con i miei lavori precedenti”.

In che modo?

Io amo le storie radicali, estreme. Mi interessano i gruppi identitari la cui esistenza viene minacciata. Mi è capitato con i minatori o con gli ultimi contrabbandieri di Brindisi (Marlboro city del 2010). Inoltre, in questo caso volevo approfondire il discorso sull’uso del corpo, fondamentale nella vita quotidiana di queste persone, la scelta dell’isolamento dal resto del mondo, i rapporti di potere tra i membri di questa comunità, e tra loro e il maestro, un uomo che aveva un sogno: costruire un modo di vivere alternativo.  E in 20 anni ci è riuscito”.

Spesso il discorso sul cinema del reale non va oltre il contenuto dell’opera. Come se bastasse piazzare una macchina da presa e il documentario si girasse da sé. Faith fa delle scelte precise, invece, di linguaggio, di estetica, di sguardo. A cominciare, per fare due esempi eloquenti, dal bianco e nero e dal non utilizzo di interviste. Spiegaci queste scelte.

Speravo si cogliesse. La sfida è fare documentari utilizzando il linguaggio del cinema tout court. Le interviste le abbiamo fatte solo in fase di preparazione e per far loro prendere confidenza con la macchina. Raccontare l’autenticità della loro scelta è fondamentale, con tutte le contraddizioni del caso. Quindi, dovevo diventare invisibile, lasciare che la vita si svolgesse davanti alla camera. Però non mi interessava fare pura cronaca o un reportage, nel film c’è un chiaro punto di vista secondo me.  Credo sia una storia piccola che dice molto di noi, dei meccanismi che regolano le nostre vite e le comunità che ci appartengono, in primis la famiglia, poi la scuola, l’esercito. Il bianco e nero (una menzione spetta al direttore della fotografia Bastian Esser) è una scelta rigorosa, non prettamente estetica ma etica: rappresenta la divisione tra il mondo di dentro, con la sua purezza rappresentata anche dalla scelta degli abiti bianchi, e quello di fuori, pieno di ombre. Volevo astrarre il film, toglierlo dalla dimensione reale, porlo sulla soglia di un limbo affascinante capace di porre interrogativi agli spettatori”.

La vita del monastero è scandita da rigide ritualità. Vediamo la rasatura dei capelli e il bendaggio del corpo, le docce fredde post-allenamento e i pasti collettivi. Che posto ha l’individualità in un’esistenza di quel tipo?

Dall’esterno potrebbe esser facile etichettare la loro scelta. In realtà si tratta di persone che affidano la propria vita a qualcosa di più grande, che trovano in quel modo una propria dimensione. Avendo convissuto con i guerrieri per mesi li vedo come una famiglia allargata con tutti i meccanismi oppressivi e meravigliosi che porta con sé ogni famiglia. Ho cercato di non giudicare, lasciando al pubblico la possibilità di farsi una propria idea”.

Un’altra caratteristica peculiare di Faith sono gli squarci improvvisi di techno che costellano la narrazione, momenti di danza ancestrale, che funzione hanno?

È tutta musica diegetica, non c’è stata alcuna aggiunta da parte mia. Anche quei momenti sono stati girati in presa diretta. Hanno grande importanza nella dinamica del gruppo. La musica è parte fondamentale del training atletico. C’è uno strano sincretismo tra fede cristiana, discipline orientali e la musica”.

La vera battaglia dei monaci guerrieri sembra essere tutta interiore, più che contro l’esterno, con cui i contatti sono sporadici, che ne pensi?

Sono d’accordo. Nel monastero si svolge una guerra contro i propri limiti, fisici e non, finalizzata alla crescita spirituale. In qualche modo queste persone hanno trovato il proprio angolo di paradiso, ma l’isolamento non è una scelta di vita facile, richiede sacrificio. E le  tante scene di allenamento nel film danno la percezione di quanto non si tratti solo di fare sport, ma di migliorarsi a livello mentale e spirituale. Per quanto riguarda il rapporto con l’esterno, i guerrieri fanno beneficenza e aiutano alcune famiglie in difficoltà”.

Cosa ti lascia questa esperienza incredibilmente immersiva?

L’amore per il documentario mi ha portato ad attraversare vite, ad immergermi ogni volta. Per Dal profondo ho vissuto due anni sottoterra. Per Faith sono stata tre mesi nel monastero con la mia troupe. Eravamo in quattro, vestiti di bianco e senza cellulari: entrando in casa altrui è giusto accettarne le regole. Posso dire che questo è stato il viaggio più bello, duro, difficile, complesso. Entrare nel loro mondo mi ha impegnata, testa e cuore, per un anno intero. Ma ho imparato così tante cose su di me, donna e regista, sia tecnicamente che emotivamente”.

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