La vita è meravigliosa, l’incontrollabile fede nella vita nel capolavoro di Frank Capra

by Paola Manno

“Questo è il più bel film che avessi mai fatto. Era il film per la mia gente, il film che avevo voluto fare da quando avevo posato per la prima volta l’occhio contro il mirino della macchina da presa in una palestra ebrea di San Francisco. Un film per dire ai depressi, agli sconfortati, ai disillusi, ai barboni, ai poveracci, alle prostitute, che nessun uomo è fallito!” -racconta Frank Capra nella sua autobiografia a proposito de La Vita è Meravigliosa.

L’orgoglio con il quale racconta il successo del suo film più celebre è certamente legato a questioni personali. Francesco Rosario Capra, nato in un paesino della Sicilia nel 1897 da una coppia di fruttivendoli, ultimo di 7 figli, si trasferì insieme alla famiglia a Los Angeles dove ebbe la possibilità di studiare ingegneria chimica. Il suo destino non era tuttavia legato a componenti tecnico-scientifiche, bensì al mondo dell’arte.

Partì dal basso, svolgendo incarichi diversi, dal tuttofare sui primi set a montatore, fino alla scrittura dei sui primi film, tra i quali numerose commedie e b-movie. La vita è meravigliosa uscì nel 1946, subito dopo la guerra e sebbene candidato all’Oscar nel 1947 come miglior film, miglior regia, attore protagonista, montaggio e sonoro, non ottenne da subito il successo di pubblico sperato e questo provocò la cessione della Liberty Films, fondata proprio dall’autore nel 1945,  alla Paramount Pictures.

Eppure il film, nonostante tutto, fu proprio quello che lo rese eterno, perché dentro a questo film c’è tutta la poetica dell’uomo che ce l’aveva fatta, e c’è la fede nel cinema, e la celebrazione dell’essere umano. La Storia gli darà ragione: nel 1990 venne scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del congresso degli Stati Uniti e nel 1998 l’American Film Institute lo inserì nella lista dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi. Più di tutto: La vita è meravigliosa è un film che continua ad emozionare anche dopo quasi 80 anni e rappresenta uno dei classici più amati da sempre.

Cosa c’è di tanto speciale in questo film? L’incrollabile fede nella vita, direi senza alcuna esitazione. 

“Strano, vero? La vita di un uomo è legata a tante altre vite. E quando quest’uomo non esiste, lascia un vuoto” – è la celebre frase che l’angelo custode di George Bailey, protagonista del film, pronuncia su quel ponte dal quale l’uomo ha intenzione di gettarsi giù.

È la vigilia di Natale e George fissa l’acqua gelida. Nevica e l’uomo è convinto, polizza sulla vita in tasca, che la sua esistenza valga più da morto. La società che ha ereditato da suo padre, ma che lo ha legato a una vita provinciale, è sull’orlo di una crisi finanziaria. Forse solo la morte potrebbe mettere a posto le cose. George è un uomo generoso, ha dedicato la sua vita ad aiutare gli altri, mettendo continuamente da parte le sue ambizioni. Da ragazzo sognava di studiare, di andare al giro per il mondo, è invece si ritrova in una cittadina di provincia a portare avanti il sogno di suo padre. Per tutta la vita George lotta contro le altre voci che lo chiamano: la voce dell’amore, per esempio: –non mi sposerò mai! urla un momento prima di baciare con passione Mary, prima di chiederla in sposa. 

C’è la voce della responsabilità verso il suo paese, ma soprattutto c’è la voce della sua coscienza, quando rifiuta un contratto di lavoro favoloso che lo porterebbe a tradire il progetto di famiglia. C’è qualcosa, insomma, nella vita di quest’uomo, che non gli permette di essere completamente felice. 

Così la sua frustrazione viene fuori proprio a causa di un problema di lavoro che sembra insormontabile. Ecco che un uomo che ha ingoiato molti rospi, a un certo punto tira fuori tutta la sua rabbia. Si scaglia contro lo zio-socio d’affari, contro la moglie (“perchè abbiamo fatto tanti figli?”), ma soprattutto contro se stesso che non è stato capace di darsi ascolto. 

È la storia di moltissimi uomini e donne, in fondo. Dove saremmo oggi se quel giorno avessimo detto “no”? Cosa saremmo diventati se avessimo avuto il coraggio di acchiappare con forza le nostre giuste ambizioni e cullarle, tenerle strette fino a farle diventare reali? Queste sono domande alle quali è impossibile rispondere. A un’altra domanda, però, siamo in grado di fornire una riflessione, che è poi quella che l’angelo di George Bailey gli pone davanti: “Che cosa sarebbe stato se noi non ci fossimo mai stati?”. Ecco che George si ritrova in un presente che lui non ha vissuto. Ecco che suo fratello è morto affogato in un lago, perché George non si è mai tuffato a salvarlo, quel ragazzo che invece sarebbe diventato eroe di guerra e avrebbe salvato decine di soldati da un kamikaze. Ecco che Gower, il farmacista  del paese, ha avvelenato per errore un bambino, perché George non lo ha fermato in tempo. Ecco che i suoi figli non sono mai nati, e il suo paese è diventato un altro, sopraffatto da un magnate che ne ha comprato le case, e pure gli animi degli abitanti. 

La vita di Bailey è piena di rinunce, ma è anche piena di azioni concrete dalle quali ne sono scaturite molte altre, legate a quelle di altre persone che hanno avuto la fortuna di incontrarlo. 

Così, Bailey trova finalmente il senso della sua esistenza, legata alle sue rinunce ma anche, soprattutto, al suo essere uomo in mezzo agli uomini. 

Nessun uomo, se circondato da amici, si può considerare un fallimento” scrive Clarence, l’angelo custode, sulle prima pagina di “Tom Sawyer”, il suo dono di Natale a George. 

Già, la vita di ogni uomo confina con quella di molti altri – ci ricorda Frank Capra. Anche oggi che siamo separati da un metro di distanza, da mascherine e da regole che stiamo imparando con fatica. Anzi, soprattutto oggi. 

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