Les Misérables, l’acclamato film di Ladj Ly nelle banlieue parigine

by Giuseppe Procino

Guardando “Les Misérables” di Ladj Ly, è inevitabile pensare a “La Haine” di Mathieu Kassovitz ed è subito palese che quell’uomo che cadeva da un palazzo di cinquanta piani, forse non ha mai toccato il suolo oppure, dopo di lui, di uomini ne sono caduti tanti altri, forse da soli, forse in massa.

Il fatto è che a distanza di un quarto di secolo che sembra essere lontanissimo se si pensa all’evoluzione sociale e tecnologica, alcuni contesti sono rimasti lì, impassibilmente immutati, quasi a conferma che le regole che dividono il mondo tra chi sta sopra e chi sta di sotto non subiscono il cambiamento socioculturale, anzi, nel migliore dei casi restano le stesse, nei peggiori subiscono un inasprimento esponenziale.

Ladj Ly conosce bene questa situazione, lui tra i miserabili di Montfermeil ci è cresciuto. Sa cosa vuol dire essere invisibile e dover fare rumore per tentare di essere ascoltati. Guardando la sua fedina penale, è come se il cinema fosse diventato l’alternativa, una maniera preferenziale rispetto alla violenza per urlare la propria verità. Gli ultimi di cui il cinema di Ly si fa portavoce eccellente, non sono i cattivi e neanche i buoni, perché “Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori” e questo non lo dice lui, ma Victor Hugo proprio nel suo “Les Misérables”. Immaginate ora quando i coltivatori sono completamente assenti e le periferie fisiche divengono terre di nessuno in cui è impossibile calibrare il tiro verso una prospettiva.

Qui vivono e agiscono gli ultimi de “I Miserabili”, nell’assoluto silenzio assordante delle istituzioni, confinati ai margini fisici della società e lasciati al loro destino, senza alcuna possibilità di salvezza. Questo gran bel film di Ladj Ly ci prende a schiaffi in maniera inaspettata, lasciandoci un messaggio chiaro e preciso, senza scendere mai in paternalistici J’accuse e cercando con il suo stile freddo e distaccato di raccontare con la massima obiettività le conseguenze di uno stato assente. Qui, senza che nessuno ne abbia cura, l’erba cresce in maniera autonoma e selvaggia, mettendo le radici perché è l’unica cosa che può fare. Così, la decisione che sembra così chiara per lo spettatore all’inizio, di prendere le difese di una parte o di un’altra, è continuamente ribaltata con un gioco continuo di riflessi e piccole sorprese che offuscano la linea di demarcazione tra giusto e sbagliato.

La violenza non è la risposta, questo è chiarissimo sin dal principio in questo racconto, ma la mancanza di un interesse istituzionale crea il nemico, l’obiettivo su cui concentrare le proprie frustrazioni durante le campagne elettorali. Così se nel romanzo di Hugo la vita dei personaggi si dipana tra un ciclico ritorno di cadute e redenzioni, nel film di Ladj Ly ci sono solo cadute perenni, un processo quasi naturale di affossamento dell’essere umano e che può solo spingersi verso conseguenze estreme.

Abitanti della banlieue e polizia sullo stesso piano, incapaci sino in fondo di comunicare tra di loro nella maniera corretta, seppur convinti di saperlo fare. La periferia francese diventa così un modello di tutte le altre periferie, superando confini e linguaggi e diventando continua profezia dei quartieri popolari creati per separare la realtà filtrata ed effimera del monumento, del turismo e dell’upper class, dalla realtà concreta degli ultimi, che sognano possibilità eque e il diritto alla scelta.

Abbandonate nel degrado più palpabile, fatto di palazzi pericolanti, immondizia per le strade e un’unica scuola intitolata proprio al grandissimo Victor Hugo (che proprio a Montfermeil ambientava i suoi Miserabili quasi come monito di un destino già segnato), alle classi sociali meno fortunate non resta che creare da sole i propri equilibri tra il crimine e le relazioni tra le altre etnie. Questo equilibrio si dimostra lontanissimo dai principi di pacifica condivisione e integrazione cui assistiamo all’inizio della pellicola, durante una partita di calcio: un sogno a occhi aperti che rappresenta la favola ideale di ogni nazione.

La vera Parigi però è altrove, lontana dalla torre Eiffel, nel racconto della quotidianità. Chi sono quei ragazzi quindici anni dopo, cosa hanno ottenuto dopo la guerrilla delle periferie, cosa è cambiato? La risposta è in uno schermo nero che separa due anime messe alle strette da un sistema che non esiste e che impedisce alle due parti di ascoltare le rispettive ragioni, ma anche nella volontà di non mostrare chi resterà in piedi, evitando di colpevolizzare qualcuno, perché quando sei messo all’angolo non c’è colpa. Su tutto, l’occhio vigile della tecnologia, che permette di condividere, quasi come un bisogno fisico di rimarcare la propria esistenza, ma anche che permette di raccontare e denunciare dando voce a chiunque e diventando un mezzo per osservare il mondo da un altro punto di vista.

Tra cinema neorealista e cinema indipendente, con continui rimandi ai linguaggi del documentario, Ladj Ly alla sua prima prova con il lungometraggio di finzione colpisce allo stomaco, riuscendo a tenere alta la tensione sino alla fine ma mantenendo un tono asettico. Le interpretazioni assolutamente convincenti (e sbalorditive per quanto riguarda la parte più giovane del cast) accompagnano una sceneggiatura asciutta, essenziale ma che riesce a essere eloquente nel modo giusto.   

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