L’Esorcista, quasi 50 anni e non sentirli: il terrificante capolavoro di William Friedkin

by Giuseppe Procino

Fa riflettere come a distanza di quasi cinquant’anni “L’Esorcista” mantenga intatto il suo appeal di film snervante, sconvolgente e assolutamente terrorizzante. È il 1973 e il cinema di genere sta per subire una rivoluzione radicale, gli effetti speciali stanno per superare il confine delle Grindhouse e stanno per sfondare la porta del cinema d’autore.

Di lì a pochi anni debutteranno Hooper, poi a seguire Carpenter, Wes Craven ha già girato “L’ultima casa a sinistra” ma la critica non è stata poi così entusiasta. La strada è stata indicata da Roman Polanski con il suo “Rosmary’s Baby”. Sono gli anni del post sessantotto che si portano dietro gli strascichi di un’America dal volto ambivalente, per molti malata, in cui sopravvivono con determinata violenza i fantasmi del razzismo, un patriottismo cieco e sordo che spinge i propri figli verso sorti spietate.

Ne ha già parlato Romero con un altro film assolutamente seminale per le sorti della storia del cinema, il cupissimo “La notte dei morti viventi”, e ne parlerà ancora cinque anni dopo con “Dawn of dead”, attaccando il consumismo senza freni della società. Metafore. Il cinema di genere americano in questo momento guarda oltre la cortina e utilizza il terrore per dire altro, per nascondere un messaggio tra i cadaveri in putrefazione.

È un cinema che identifica il male con il proprio nido, la casa che da luogo sicuro diventa ameno, luogo della famiglia in cui si annida il male, ribaltamento delle certezze sociali, così come l’America in cui si ribalta la grande illusione della perfezione e della santità di chi è sempre dalla parte del giusto. Il nemico però forse non è altrove, il nemico è dietro l’angolo, potrebbe essere il tuo vicino, potrebbe essere in casa, avere un volto comune. Interrogativi, analisi lucide e grottesche di un paese in continua contraddizione.

Il male ne “L’Esorcista” abita la casa di Georgetown, si impossessa di una bambina innocente in maniera improvvisa, inaspettata e allo spettatore non è concesso sapere più del dovuto. Certo anche questo lo ha fatto Romero nel sessantotto sempre nel suo film culto, ma Romero non è Friedkin, non è il regista di “The French connection”, pellicola ricoperta di oro e stelle dall’Accademy e dai Golden Globe. Questa è la prima grande novità che destabilizzerà la new Hollywood: Friedkin è un regista sotto contratto con una major che accetta di dirigere un horror la cui battuta più famosa è “tua madre succhia i cazzi all’inferno”. Un passo azzardato forse, ma il cinema più di ogni altra arte ci insegna che non è importante cosa racconti ma come decidi di raccontarlo.

Un punto di vista unico, lucidissimo che sceglie di non lanciare subito lo spettatore nella mischia ma di accompagnarlo con passo lento, percependo solo piccoli dettagli che si esplicheranno solo nella parte finale. Da questo punto di vista “L’Esorcista” deve tantissimo al cinema Alfred Hitchcock, nello specifico deve pagare il suo tributo a “Gli uccelli” in cui tutto quello che accade diventa chiaro a film già inoltrato ma anche a Psycho.

Il vivo dell’azione della pellicola di Friedkin arriva a scoppio ritardato, nel frattempo lo spettatore è avvolto da un senso di inquietudine senza via di scampo. Cosa sta accadendo davvero? Uno sguardo furtivo su dei dettagli che presi singolarmente sembrano destabilizzanti, badate bene, parliamo della versione del 1973 non della riedizione del 2000 più esplicita e molto più rallentata, sebbene dovremmo privarci della sequenza in cui Regan scende giù per le scale a carponi ma al contrario come se fosse un ragno.

I dettagli però non sono solo fatti di immagini, ma sono fatti soprattutto di suoni, rumori comuni che acquisiscono un senso oscuro. Sono i rumori che popolano le abitazioni di qualunque spettatore: porte che scricchiolano, sbattono oppure vetri rotti e spifferi di vento. Si insinuano nelle orecchie inconsapevoli e poi ti finiscono nel cervello, lavorando nel subconscio, costruendo il terrore.

La traccia audio de “L’Esorcista” è curata al dettaglio, studiata in maniera maniacale e efficace, si ovatta nelle visioni di padre Karras riproducendo l’incubo, la premonizione; alza i decibel per poi abbassarli vertiginosamente. È una riproduzione del reale, come aprire una finestra sul tormento. Friedkin è maestro del documentario, non gli interessa l’aspetto terrificante della storia, gli interessa renderla credibile. D’altronde il romanzo di William Peter Blatty da cui è tratta la pellicola, si ispira ad un avvenimento di cronaca, l’esorcismo di una ragazza di soli quattordici anni avvenuto proprio a Georgetown. Negli articoli di giornale si descrivono con precisione i suoni che provengono dal mobilio, dalle pareti e poi la voce della ragazzina in grado di parlare in latino. Sul rumore aleggia la musica di Mike Oldfield, quella parte iniziale dell’ambizioso “Tabular Bells” che proprio grazie a questa pellicola resterà il disco più venduto della neonata Virgin Record.  

Altro nodo cruciale è la scelta del casting, non attori esordienti o sconosciuti ma esattamente come era stato per “Rosmary’s baby” di Polanski attori noti al grande pubblico. Per il ruolo di Chris MacNeil, dopo vari rifiuti da parte di super dive (tra cui Audrey Hepburn), la scelta ricadrà su Ellen Burstyn, fresca di nomination all’oscar per “L’ultimo spettacolo” di Bogdanovich e che proprio per “L’Esorcista” ne riceverà un’altra. Per padre Merrin, Friedkin vuole a tutti costi Max Von Sidow, attore di punta del cinema svedese, tra i preferiti in assoluto del regista e che proprio con questo film approderà ad Hollywood per la prima volta. Linda Blair fu scelta dopo delle lunghissime selezioni.

Ogni elemento è curato, pensato per dare vita a un meccanismo emotivo ben preciso: inquietare sino alla paura reale, concreta. La sceneggiatura, che vincerà un premio oscar, scava nell’animo dei personaggi, ci mostra le loro incertezze, i loro sensi di colpa e la loro fede che vacilla ma che alla fine è l’unica via (per Friedkin e Blatty) verso la salvezza. Ogni personaggio è in una condizione di peccato, di errore esistenziale e deve ritrovare la redenzione. Tra torcicolli molto esagerati, masturbazione sacrilega, liquami verde pisello, Regan è l’anima pura che attrae il male proprio perché incapace di concepirlo. Un po’ moralista, ma davvero senza esagerare.

“L’Esorcista” è un horror che nel suo desiderio di essere film drammatico finisce per rispettare tutti i dettami dell’orrore puro, diventando di fatto davvero una delle pellicole più terrificanti della storia del cinema.

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