My Octopus Teacher.
“L’Oscar per il miglior documentario alla 93/a edizione dei premi va a My Octopus Teacher (Il mio amico in fondo al mare) di Pippa Ehrlich, James Reed e Craig Foster. Il film Netflix è l’incredibile storia personale di un’amicizia tra un appassionato delle profondità marine e una mamma polpo, nel mare sudafricano.”
Il comunicato stampa recita questo.
L’articolo che stai per leggere, invece, va oltre la superficie della semplice recensione, oltre lo specchio d’acqua in cui spesso ci riflettiamo, oltre la simpatia che un animale sortisce sugli animi umani più romantici.
Questo documentario vincitore di un Oscar è un film necessario per molti motivi. (Chi scrive odia gli elenchi quindi tenetene – il – conto.)
Craig Foster racconta come è scoppiata la scintilla per realizzare “My Octopus Teacher”.
Era in Kalahari, circa 20 anni fa, stava realizzando un film col fratello ed è rimasto incantato dagli autoctoni della regione desertica dell’Africa meridionale perché capaci di scorgere animali nascosti in enormi scenari, di sentire la delicatezza della natura.
Craig
Foster
dominato da
un’assenza
di stimoli artistici per cui si è sentito inadatto, prima di tutto
come padre, e di conseguenza ha sviluppato istintivamente il
desiderio di camuffarsi.
Si
dichiara incantato dalla pazienza di quegli uomini incontrati in
Kalahari e, riporto testualmente,
“loro
erano dentro la natura, io mi sentivo fuori”.
Eccolo il primo, grande, insegnamento di questo documentario: essere parte della natura, non essere semplicemente spettatori. Da quanti secoli continuiamo e continuano a ripeterci che, in fondo, noi siamo animali?
Diventiamo animalisti, vegetariani, vegani, fruttariani, ma non riusciamo a superare l’ostacolo del sentirci animali. Sentirci parte della natura, pro e contro, non esserne fuori.
Dopotutto, pensiamoci, l’aggettivo “animale” attribuito ad un individuo non lo connota certo quale essere umano esemplare, ma piuttosto quale esemplare di essere inumano.
Bene, My Octopus Teacher salta questo paletto sociale, oltre che glissare – come chi legge, spero – sul mio gioco di parole, e fa sentire lo spettatore parte della Natura, della sua delicatezza, della sua fragilità.
Contemporaneamente
riesce
a
far
sentire
lo spettatore un essere umano – o inumano – spietato per tutte le
volte in cui ha deturpato, ucciso, strappato, masticato, sputato,
violentato la natura.
Dopotutto,
pensiamoci – di nuovo – oggi, un micro virus che non riusciamo a
catturare forse perché
siamo
sprovvisti
di
tentacoli e ventose, come un polpo, (è retorica eh) ci ha fatto
ritornare prede. Nelle nostre tane, chiusi, quasi ermeticamente. Fare
un passo fuori è un atto di coraggio o di spavalderia, da animali
appunto,
e
fa sentire fragili, non protetti, senza armature, senza corazze
abbastanza resistenti. Indifesi. Senza strategie. Se fossimo davvero
animali,
forse, sapremmo come difenderci e chissà
saremmo più bravi
nell’accettare
le leggi della natura, di vita e di morte.
Se
fossimo animali, useremmo le strategie, ce le avremmo nell’abitudine
alla vita.
Strategie
che il protagonista del documentario impara dalla sua insegnante, la
“octopus
teacher” appunto.
Se
hai sentito un brivido correre lungo la schiena e stai leggendo
questo articolo, sappi che il film (se non altro perché
un
racconto per immagini è più
incisivo delle parole su uno schermo) ne regala molti di più.
Il documentarista, Craig Foster, sente la necessità di esplorare ciò che fin da piccolo aveva sotto i suoi piedi, in Sud Africa: la foresta sott’acqua e scopre che esiste davvero un altro mondo. Giorno dopo giorno decide di non collidere, ma di entrare in contatto fisico con questo mondo e con una regina, il “suo” polpo, sontuoso, ballerino, rapido e scaltro. Non la stressa, asseconda i suoi tempi, la visita come si fa con una nonna o con una neonata. In silenzio, sulle punte, allungando la mano al bisogno. Accarezzando con parsimonia e con una grande dose di ossigeno.

L’istinto cinico di chi scrive, assuefatto a Netflix e ai racconti buonisti, per pochi minuti, ha fatto prevalere l’idea che l’animale toccasse l’uomo perché l’uno è preda e l’altro predatore, ma nello stesso momento in cui si persevera con questo pensiero, il documentario chiòsa in maniera differente. E questo è l’ennesimo insegnamento del film. Camuffarsi fluidamente, come i polpi.
“Gentleness”.
Per Craig è tutto qui. Tutto comincia e finisce qui.
Il vocabolario inglese impolverato dai tempi delle scuole medie traduce questo sostantivo con dolcezza, delicatezza, tenerezza.
Il grande insegnamento di madre natura è quindi la sua “gentleness”, la sua dolcezza, delicatezza, tenerezza. Seguire i suoi ritmi: rispettarla, assecondarla, per fare nostre queste attitudini, per migliorare come esseri umani e come animali. Imparare a morire, naturalmente, a lasciare il passo. Fino alla fine.
Su un marciapiede alla fine di un funerale, il momento in cui un corpo lascia il passo ad un altro corpo, ieri, chi scrive ha scorto l’involucro utilizzato di una bustina di zucchero che riportava la seguente citazione di Tolstoj:“tutti vogliono cambiare il mondo, ma nessuno vuol cambiare se stesso”.
Curiosa citazione se accostata ai cambiamenti climatici che incombono, all’etica animalista che tutti dovremmo avere. Etica animalista non significa semplicemente non mangiare animali, ma sentirsi parte di un ecosistema naturale e agire di conseguenza. Ennesimo insegnamento, stimolo, spunto offerto da questo documentario da oscar.
My Octopus Teacher è un film necessario perché ripristina il rapporto fra uomo e natura e lo trasforma in un esemplare rapporto fraterno. Tutta linfa per il nostro mondo che sintetizza, respirando consumo, solo profitto.