Non conosci Papicha: il film sulla resistenza di una giovane algerina che voleva fare la stilista

by Gabriella Longo

Smalti colorati, trucco pesante, gomme, sigarette, la bellezza virginale della giovinezza e la febbrile eccitazione di eludere il coprifuoco del campus di Algeri in cui studiano francese: Nedjma (Lyna Khoudri) e compagna (Shirine Boutella) sfrecciano in un taxi abusivo diretto in discoteca consegnando alla notte il più bello dei sogni. I bagni del locale si trasformano in un camerino per prove e défilé degli abiti che Nedjma disegna, cuce e vende alle amiche più strette, aspettando il momento di diventare una stilista. Anche se poi i soldi che ci ricava le servono per comprare i tessuti e il silenzio del custode.

Si è conquistata il titolo di “Papicha”, cioè ragazza che rifiuta il velo e indossa i jeans, una tipa cool e sovversiva, ma che nello slang dei giovani algerini significa anche inappropriata e discinta: da qui il titolo dell’esordio promettentissimo di Mounia Meddour, accolto favorevolmente a Cannes dove era stato presentato nella sezione Un Certain Regard, premiato ai César come Miglior Opera Prima e Miglior Attrice Emergente, scelto a rappresentare l’Algeria agli Oscar 2020, ma censurato in terra araba, anche se a lungo circolato per canali non ufficiali. Questo perché la regista immaginava i preparativi della sfilata di Nedjma, gli amori, le tenerezze familiari, gli scherzi fra collegiali, la spontanea felicità di un ballo partito su Get Up dei Technotronic, svolgersi durante la guerra civile degli anni Novanta che in Algeria aveva fatto 200 mila morti. E proprio mentre il film otteneva l’attenzione del Festival francese, nel 2019, ad Algeri si stava consumando la più lunga settimana della “Rivoluzione del sorriso” durante la quale i giovani che il decennio nero non l’avevano vissuto si ritrovavano ad insorgere contro la quinta candidatura presidenziale di Abdelaziz Bouteflika.

Negli anni Novanta in Algeria ci viveva anche Mounia Meddour, prima di trasferirsi con la famiglia in Francia perché suo padre, regista e attivista, era finito nel mirino dei terroristi. Aveva diciotto anni quando decideva di iniziare a scrivere questa storia, che ha un approccio lontanissimo dal documentario su cui Meddour si fa le ossa, ma che ha solo l’intento di fotografare in modo intimo e attraverso il filtro dell’amicizia “un passaggio della storia algerina raccontato molto poco” e “ancora più raro che sia raccontato dal punto di vista femminile”, dice la regista sulla Croisette. Ma alla fine anche la tenera e tenace Lyna Khoudri, che aveva vinto il premio Orizzonti per la sua interpretazione in Les bienhereux (altra pellicola sul trauma della guerra civile algerina), è figlia di fuggitivi – un giornalista e un’insegnante di violino scappati in Francia come molti- e ha vissuto indirettamente l’incubo di quegli anni.

È facile, dunque, rivedere quella lotta all’oppressione e alla violenza oscurantista nella personalissima forma di resistenza di Nedjma combattuta a colpi di centimetri da sarta e una specie di Singer, le uniche armi che le servono per reinventare un hàik, con una miriade di pieghe, goffrature, proprio a dire che una tradizione di fondamentalismo castigatore dev’essere come un tessuto che ad un certo punto s’increspa. Ed è fortissimo questo rapporto con le origini che la giovane Nedjma, pur nella portata tutta anarchica della sua emancipazione, rispetta e conosce profondamente al punto da essere l’unica fra i suoi coetanei a non sentire la necessità di andarsene da Algeri, e a chiedersi perché dovrebbe portare la sua rivoluzione lontana dai suoi affetti, nonostante il suo paese sia diventato, a detta di tutti, “una grande sala d’attesa”. Notizie alla radio dicono di una situazione che s’inasprisce di giorno in giorno, di attacchi da parte di gruppi armati, di lezioni universitarie sabotate, di matrimoni in quanto puri passaggi di proprietà come strada a senso unico, ma Nedjma resiste e disegna, crea per sé e per le donne che la circondano un microcosmo intimo e domestico, idealmente la cameretta dove l’adolescente gioca indisturbato a immaginare il suo futuro fra poster dei suoi idoli. Ottiene la sua sfilata nella mensa dell’università, con tutte le sue colleghe che prima erano state manichini e adesso sono diventate modelle, immagina forme nuove per i suoi abiti friggendo della pastella insieme alla madre che le racconta, scherzandoci su, in quanti modi poteva essere nascosta un’arma sotto l’Haik durante la guerra coloniale.

E anche se le cose del mondo penetrano e distruggono con la loro irruenza dinamitarda queste rare tranche de vie, la forza delle Papicha è di tendere sempre alla vita, alla solidarietà e di rispecchiarsi nei valori buoni e di creare simboli che hanno la capacità d’imporsi come baluardi transgenerazionali di resistenza non meno stentorei di un manifesto composto da tante parole.

Il film, tutt’ora bandito in patria per motivi mai chiariti, è distribuito in Italia da Teodora Film.

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