Sacralità e carnalità nel film di Alessandro Piva, dedicato a coloro che sopravvivono

by Luana Martino

Santa Scorese era una giovane donna, di soli 23 anni, che la sera del 15 marzo 1991, al rientro a casa, venne accoltellata a morte dal suo persecutore. Lei, giovane attivista cattolica della provincia di Bari, per anni aveva subito le morbose attenzioni di uno sconosciuto molestatore, senza mai mettere in discussione la sua vocazione e il suo percorso spirituale; lei che davanti agli occhi impotenti dei genitori e di una società all’epoca impreparata ad affrontare i reati di genere e lo stalking viene brutalmente uccisa senza poter difendersi in alcun modo.

In occasione dell’arrivo in sala il 9, 10 e 11 dicembre del docufilm ‘Santa subito’ di Alessandro Piva, abbiamo incontrato il regista per parlare del suo ultimo lavoro prodotto attraverso il “Social Film Fund con il Sud”, progetto promosso da Apulia Film Commission e Fondazione con il SUD e vincitore della Festa del Cinema di Roma del Premio del pubblico BNL.

Il regista salernitano riesce, in un’ora, a far rivivere i sogni, le emozioni e anche le paure che Santa racchiudeva in sé. I diari ritrovati dalla sorella Rosa Maria, i ricordi e le parole dei suoi familiari fanno luce sulla breve vita della giovane pugliese.
L’elaborazione del lutto così personale e intima diventa, qui, un modo per tornare a scavare nei ricordi, un atto di consapevole dolore ma accompagnato al desiderio di voler perpetuare la memoria di Santa.
Perché, purtroppo, la sua storia è oggi una vicenda comune, una triste piaga dei nostri giorni, giorni in cui i femminicidi sono troppo frequenti.

Le parole di Rosa Maria riecheggiano anche in sala, lei, infatti, presente alla proiezione con il regista, ci racconta e si racconta: “Purtroppo la storia di mia sorella è oggi una delle tante storie. Dal primo momento in cui ho voluto che mia sorella indossasse un abito rosso per partire per il suo ultimo  viaggio, ho capito che la sua storia non dovesse essere abbandonata in un cassetto. La scelta dell’abito rosso era fondamentale perché Santa è sempre stata una donna forte, coerente e determinata e quel colore era l’esternazione della sua personalità. Il dolore era ed è ancora troppo forte ma la voglia di raccontare per evitare che altri possano soffrire come noi ci ha spinti a voler parlare di Santa. Vorrei che, soprattutto i giovani, possano conoscere questa storia affinché non si taccia e si prenda consapevolezza; da insegnante vorrei che le ragazze possano autodeterminarsi e mi piacerebbe che i bambini e le bambine crescano con una nuova consapevolezza e senza stereotipi”.

Alessandro Piva dedica, non a caso, il suo prezioso film a Coloro che sopravvivono, sua madre, suo padre, la sorella Rosa Maria, le guide spirituali, le amiche, i parenti, e tutti coloro che gravitavano attorno a Santa. Il documentario diventa, perciò, una storia simbolica forte e commovente, un mezzo per dar voce ad un mondo che spesso è silente.

Lo sa bene l’avvocata Maria Pia Vigilante, Presidente della l’associazione Giraffa, una Onlus costituita da donne che si occupano di donne vittime di violenza.

“Quando Alessandro ci ha chiesto di diventare partner del progetto, abbiamo accettato subito. Perché volevamo riuscire a coniugare una tematica così importante cioè quella della violenza maschile ai danni delle donne e la possibilità di poterne parlare ad un pubblico diverso e soprattutto ai ragazzi e alla ragazze. Dobbiamo cercare, infatti, di comunicare il più possibile con loro perché sono i destinatari di questo tanto paventato mutamento culturale”.

Alessandro Piva

Abbiamo fatto qualche domanda ad Alessandro Piva.

Piva, lei da uomo come ha scelto di approcciarsi a questa tematica?

Sono stato attirato e sedotto, in qualche modo, dallo storytelling di Rosa Maria che si è presa il compito con la sua famiglia di divulgare questa storia sia per tenere viva la figura di Santa sia per diramare il racconto di un male che è diventato dilagante. Così dilagante che ho dovuto aggiungere una didascalia finale in cui si dice che ogni 72 ore una donna viene uccisa per mano di un uomo.
Come spesso succede nella vita, l’osservatorio personale è diverso dalla realtà, per esempio penso a tutte le ‘storture’ e all’approccio della politica riguardo vari ambiti -come l’immigrazione, la violenza di genere, ecc-  che, fortunatamente, nella sfera privata non ritrovo.

Quindi come si pone riguardo il rapporto di genere?

Sinceramente del rapporto tra i generi non avevo contezza delle dimensioni del fenomeno. Quindi l’idea di far lavorare insieme gente di cinema e operatori del terzo settore mi ha aperto gli occhi rispetto a questo. Ho capito, dunque, che quella che per me era solo un’intuizione è diventata un approfondimento sul tema, un tema assolutamente importante e attuale. Mi sono rimesso, così, in discussione personalmente e credo che tutti dovremmo fare un lavoro sull’accettazione della diversità ma prima ancora sulla violenza perché è troppo esplicita in tutti i livelli. Credo, infatti, che in un contesto in cui l’aggressività è sempre presente sia facile che i più deboli esplodano perché non hanno gli strumenti per difendersi in altra maniera.Credo che un primo passo per eliminare la violenza ai danni delle donne sia quello di eliminare le discriminazioni.

Come si traduce nel quotidiano la lotta per contrastare la disparità di genere?

Dovremmo iniziare con piccoli gesti. Credo che il primo step sia quello di utilizzare il linguaggio di genere perché parlare dei ruoli al femminile è doveroso e fondamentale per iniziare a rimettere in equilibrio certi pesi che, evidentemente, dopo secoli non sono ancora in asse.

Nel film lei riesce a creare un connubio tra sacralità e ‘carnalità’. Una carnalità rappresentata sia dall’umanità di Santa, sia dalla crudeltà del gesto subito ma anche dalle emozioni che travolgono chi racconta. Come è riuscito ad unire questi due aspetti?

Le due cose sono molto intrecciate tra loro. Il vero fil rouge in questo film è la religione, la spiritualità intesa in maniera canonica da un lato e la visione distorta legata ad essa. Anche il molestatore che poi diventerà assassino, infatti, era in un certo senso ‘cristiano-centrico’, poi, però, per il suo squilibrio è arrivato ad elaborare teorie molto particolari che l’hanno spinto ad individuare in Santa l’oggetto del suo desiderio morboso. In questo senso, dunque, sacralità e carnalità viaggiano insieme in un tutto il corso del film.  

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