Sergio, il film con Wagner Moura sulla vita del diplomatico Vieria De Mello

by Nicola Signorile

Come si può amare un mostro? È successo a lungo, almeno al sottoscritto, guardando Narcos, grazie soprattutto alla performance memorabile di Wagner Moura, nei panni del re della cocaina colombiana Pablo Escobar. Criminale della peggior specie, in pratica l’opposto del personaggio interpretato dall’attore brasiliano in Sergio, film diretto da Greg Barker, disponibile su Netflix dal 17 aprile.

Il Sergio del titolo è il diplomatico brasiliano Sérgio Vieira de Mello, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, uomo votato alla ricerca della pace in tutti i contesti più complicati del globo, al quale il regista ha già dedicato un omonimo documentario nel 2009 (anche quello su Netflix) con filmati originali e testimonianze, anche molto illustri. Sveliamo subito che il povero Sergio – amava farsi chiamare da tutti solo con il nome di battesimo, ricorda nel film Kofi Annan, segretario generale Onu, in un discorso commemorativo – morì nel 2003, a 55 anni, assieme a 21 membri del suo staff, in un attentato alla sede della missione delle Nazioni Unite a Baghdad , dove era in servizio come rappresentante speciale per l’Iraq.

Tremenda conclusione di una vita spesa cercando di portare la pace tra Sudan, Cipro, Mozambico, Libano, Cambogia, Bosnia, Congo, Kosovo. La mediazione e il dialogo erano i mezzi con cui Sergio affrontava ribelli, movimenti di liberazione, feroci dittatori o i cinici politici occidentali.

Un uomo affabile, affascinante, bello, colto, dal sorriso ammaliante. All’inizio l’effetto Escobar-Sergio può essere straniante: dietro il sorriso dell’attore intravediamo il ghigno del narcotrafficante, ma Wagner Moura si dimostra capace di calarsi in un personaggio molto diverso da quello che lo ha reso famoso. 

Due figure che condividono un gran carisma, ma le similitudini si fermano qui; anche fisicamente, la trasformazione è evidente con un Moura magro, elegantee dai modi raffinati. I meriti del film non stanno tanto nell’originalità o nella resa scenica: siamo in zona biopic tradizionale con un personaggio che, in una situazione critica, si trova a rivivere a ritroso i momenti salienti della propria esistenza. Però Sergio accende i riflettori su una figura non così nota al grande pubblico, un idealista che ha portato avanti principi e convinzioni nell’ambito di un’organizzazione burocratizzata come l’Onu, spesso accusata di essere inutile o, peggio, al servizio degli Stati Uniti. 

Il cinema non frequenta molto la diplomazia internazionale, se non per declinarla in modalità spy-story o in versione complottistica. Il lavoro di queste oscure figure di mediatori viene spesso lasciato sullo sfondo, preferendo raccontare uomini da prima pagina, episodi eclatanti e apparentemente risolutori. Più ostico descrivere un quotidiano di infiniti colloqui, riunioni fiume, piccoli passi avanti alternati a significativi passi indietro: la realtà è più noiosa del cinema. E il raggiungimento della pace o la nascita di una nuova nazione sono frutto di un’opera laboriosa, di un fine lavorio che può durare anni, che richiede pazienza e capacità di ideare compromessi che menti più grossolane non sfiorerebbero neanche. E che, il più delle volte, sfocia in un nulla di fatto. Ecco perché ricordare Sérgio Vieria De Mello è importante.

Lui sarebbe stato probabilmente il successore di Kofi Annan alla guida dell’Onu, se il 19 agosto 2003quell’autobomba non fosse esplosa sotto le finestre del suo ufficio all’hotel Canal, un “regalino” dell’allora capo di Al-Queda Abu Musab al-Zarqawi, che rivendicò l’attentato. De Mello e il collega-amico Gil Loescher (Brían F. O’Byrne) rimasero per ore sotto le macerie tra la vita e la morte. 

A soccorrerli furono solo due militari che cercarono di liberarli senza mezzi e rinforzi, spostando detriti a mani nude, malgrado il consueto,enorme, spiegamento di forze Usa sul campo. Ritardi e mancanze casuali? Barker e il suo sceneggiatore Craig Borten (l’autore di Dallas Buyers Club) lasciano intravedere possibili letture alternative, attribuendo, senza dirlo apertamente, responsabilità chiare e inquietanti agli occupanti americani nella morte del diplomatico. Era stato proprio George W. Bush a convincerlo ad assumere l’incarico di rappresentante speciale Onu in Iraq. Ma i contrasti con il rappresentante del governo Usa, Paul Bremer (interpretato da Bradley Whitford) non tardarono ad emergere: si scontravano due visioni opposte di quello che andava fatto nel paese liberato da Saddam Hussein: diplomazia e brutalità sono rette parallele destinate a non incontrarsi.

Sergio rivendicò l’indipendenza del suo lavoro, preparò un dossier sulle violazioni commesse dall’esercito a stelle e strisce (su tutte la riapertura del carcere-lager di Abu Ghraib), avvisando Bremer della volontà di renderlo pubblico. Tutto questo avveniva il giorno prima dell’attentato, circostanza che lascia molti dubbi sul comportamento degli statunitensi quel tragico giorno. 

Molti dubbi li lascia anche la pellicola però, che si concentra fin troppo sulla vita sentimentale di De Mello, in particolare sulla relazione con l’esperta di economia dell’Onu, l’italo-argentina Carolina Larriera, donna molto bella e molto più giovane di lui, impersonata da Ana De Armas in versione biondissima. Capiamo la ritrosia del regista nel distogliere la macchina da presa dalla magnetica presenza dell’attrice brasiliana, prossima bond girl nel nuovo 007 No time to die e già conturbante in Blade Runner 2049. Infatti Barker indugia sul loro incontro e sullo sviluppo della relazione a Timor Est, più che sul complesso lavoro di mediazione svolto da De Mello nel guidare la transizione pacifica all’indipendenza dell’ex provincia indonesiana. Qui Barker e Borten danno molto per scontato.

La politica estera non è proprio pane quotidiano per la gran parte degli spettatori e avrebbero fatto meglio a concentrarsi sui grandi meriti del protagonista nella nascita dellaprima nuova nazione del XXI secolo, la Repubblica Democratica di Timor Est, nata dopo secoli di dominio coloniale portoghese e 24 anni di invasione indonesiana, con il sacrificio di circa 200mila morti. Per non parlare dell’appena abbozzata vicenda in Cambogia che portò Sergio a dialogare con uno dei leader dei sanguinari Khmer Rossi,  Ieng Sary, con il quale aveva condiviso in gioventù gli studi alla Sorbona. Lì ottenne il rilascio di 400mila profughi sopravvissuti al genocidio, ma nel film l’incontro è solo un breve passaggio interlocutorio. Avremmo voluto saperne di più sulle esperienze del protagonista nella ex-Jugoslavia o in Africa Centrale, odell’esperienza sessantottina a Parigi da studente universitario, accennata in un dialogo tra Sergio e Gil. In uno dei tanti battibecchi che mettevano di fronte la razionalità e la politica dei piccoli passi professata dell’amico, che poi scamperà all’attentato, e il coraggio e la fiducia nelle proprie capacità di seduzione di Sergio, conditi da quel pizzico di narcisismo che non può mancare in figure così carismatiche. Ben scritte le scene di dialogo tra i due amici e il confronto prima della fatale trasferta irachena, in cui Carolina tenta di convincerlo, fallendo, a rinunciare all’incarico.

Per Sergio Vieira De Mello il suo lavoro è una missione che viene prima anche dei suoi figli, due ragazzi che conosce appena, nati da un precedente matrimonio. Buona la tensione delle sequenze sotto le macerie con i concitati dialoghi tra diplomatici e soccorritori, sebbene l’epilogo della vicenda sia già scritto. Si avverte la sensazione, mentre il film volge al termine, di non aver approfondito abbastanza, di non aver compreso pienamente il ruolo di Sergio. Spettatore della Storia o protagonista dimenticato? Un ritratto meno sentimentale e una messa in scena meno prevedibile avrebbero aiutato a sciogliere il dubbio.

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