“Sorry we missed you”, Ken Loach documenta le nuove schiavitù dell’e-commerce

by Nicola Signorile

Non è più tempo  per sperare. La ricerca del massimo profitto ad ogni costo è il male dei nostri tempi. Una violenta valanga che travolge tutto, comprese le ultime barriere rimaste: i rapporti umani e la famiglia. Sorry we missed you, il nuovo film di Ken Loach, presentato al 72esimo Festival di Cannes, racconta con duro realismo le nuove schiavitù al tempo dell’e-commerce e del presunto lavoro autonomo che rende padroni del proprio destino. Lo fa con il consueto approccio asciutto, essenziale, documentaristico, senza mai cedere alle lusinghe del populismo o ai vezzi del melò.

Il cineasta britannico ha la capacità di calarci in un contesto reale che potrebbe essere quello di qualsiasi famiglia in un paese europeo dei nostri giorni: infatti Ricky Turner (Kris Hitchen), Abby (Debbie Honeywood) e i loro due figli, l’undicenne Liza Jane (Katie Proctor) e il liceale Sebastian (Rhys Stone) sono persone comuni con facce ordinarie. Non ci sono divi o eroi in Sorry we missed you come nel precedente straordinario film di Loach, Io, Daniel Blake, due opere accostabili per tematica, ma che si discostano per l’assenza totale, oggi, di una prospettiva di salvezza. L’83enne militante assistito, come negli ultimi 17 film dallo sceneggiatore Paul Laverty, sembra voler dire che il punto di non ritorno è stato raggiunto: speranza e dignità delle persone vengono sacrificate ogni giorno in nome di una modernità che ha l’olezzo dello sfruttamento.

Lavori con noi, non per noi”, “non sei assunto, sali a bordo” e così via, sono solo alcune delle perle snocciolate dal negriero mascherato da capo-magazzino che spiega a Rick come si svolgerà il suo nuovo lavoro. La crisi dell’edilizia gli ha fatto perdere un impiego, i debiti si accumulano. Abby presta assistenza domiciliare a persone anziani e disabili in vari punti della città dove vivono, Newcastle. C’è una possibilità di incrementare guadagni e risparmiare soldi per poter comprare casa: Rick compra un furgone e diventa un corriere freelance, 14 ore al giorno, sei giorni su sette, con scanner al seguito che registra tutti i pacchi caricati, oltre a ogni suo movimento, sosta o deviazione. Compresa nel prezzo una bottiglietta in cui fare pipì, perché non conviene perder tempo neanche per andare in bagno. Dietro il franchising si nasconde un inferno di corse a perdifiato, tracciabilità totale, contravvenzioni prese o sfiorate, multe per ogni sgarro sull’orario di consegna. Non c’è un padrone a sfruttare Rick: ogni autotrasportatore è lo sfruttatore di se stesso. Il cinico capo-magazzino è solo l’ultima propaggine di un sistema economico-finanziario vessatorio e stritolante che si è mangiato la politica, laburista o conservatrice che sia, nel caso del Regno Unito.

Ad Abby non va meglio, incastra decine di visite correndo per la città come una trottola impazzita. Stessi orari folli (“Che fine hanno fatto le otto ore di lavoro giornaliere?” le chiede candidamente una delle sue anziane), e tante persone di cui prendersi cura. Lei lo fa con amorevole dedizione, andando anche oltre i suoi compiti. “All’inizio sarà dura, ma poi andrà meglio”, così Rick cerca di rassicura la moglie, costretta a muoversi con i mezzi pubblici perché l’acquisto del furgone ha richiesto subito il primo sacrificio: l’auto con cui la donna raggiungeva le abitazioni dei suoi assistiti. La vita si fa impossibile per il nucleo famigliare. Il figlio adolescente dedito ai graffiti, salta la scuola, non capisce perché debba andarci, fino all’arresto per un furto di bombolette; la piccola di casa vede disgregarsi tutto con grande lucidità, più degli stessi adulti protagonisti. Il realismo delle scene nell’interno famigliare è impressionante, la camera esplora le emozioni dei quattro con precisione chirurgica. I pochi momenti di serenità sono riservati a un sabato di consegne passato insieme da padre e figlia, qualche risata e un boccone davanti all’orizzonte al tramonto, interrotto dal puntuale bip dello scanner o dalla gita improvvisata della famiglia per accompagnare Abby, fuori dall’orario di lavoro, ad assistere una delle sue vecchiette in difficoltà. Impegno e dedizione non bastano per progredire: se Rick si assenta dal lavoro deve trovare un sostituto o pagare centinaia di sterline. Una spada di Damocle che lo fa vacillare anche quando Seb viene arrestato. L’empatia suscitata dai personaggi è una delle chiavi per comprendere la grandezza del cineasta inglese: non c’è glamour o messa in scena che tenga, è la realtà a colpire con tutta la sua potenza.

Per capire il modo di lavorare della premiata ditta Loach-Laverty, il protagonista di Sorry we missed you, Kris Hitchen ha fatto l’idraulico per una vita e la pellicola è frutto di un lungo lavoro di incontro e raccolta di informazioni svolto dai due, come scopriamo grazie a una scritta durante i titoli di coda, “Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero”. La militanza politica si fa racconto universale di grande intensità quando vediamo Rick chiedere a capo chino una settimana di “ferie” al suo aguzzino per avere il tempo di risolvere le questioni famigliari; “e perché le chiedi a me?”, si sente rispondere. Il capo di Rick è Rick stesso: se sarà in grado di trovare un rimpiazzo, la cosa dopo tutto sarà indolore. Una settimana diventerà cinque giorni, poi tre, “in fondo possono bastare”, nel progressivo infrangersi della richiesta d’aiuto su un muro di gomma di indifferenza. “Mio padre faceva il contadino, ha mai avuto un giorno libero?”. Il muro si fa invalicabile, le ragioni dell’efficienza prevalgono su quelle del cuore, non c’è spazio per umanità e compassione. Neanche quando di mezzo ci va la salute, dopo una rapina con pestaggio subita dal padre di famiglia: l’ennesima richiesta di 1000 sterline per lo scanner distrutto fa perdere la pazienza persino alla sempre gentile Abby, in una scena in cui la donna mostra il furore di una dignità messa a dura prova. Il cinema di resistenza del due volte Palma d’oro a Cannes  – per Il vento che accarezza l’erba e Io, Daniel Blake – è essenziale oggi, perché sta sempre dalla parte degli ultimi, degli sconfitti dalla lotta di classe contemporanea. Ebbene sì, la lotta di classe. A qualcuno potrà sembrare roba da ancien règime, ma la spasmodica ricerca del profitto, la mitologia del successo economico ci ha portati a un punto di non ritorno (non è forse quello che racconta lo stupendo Parasite seppur da una prospettiva orientale?). Negarlo vuol dire solo voltarsi dall’altra parte, non voler vedere come la deregulation tanto cara al neoliberismo ha ridotto le società occidentali. Ken Loach ce lo rammenta, schiaffeggiandoci in pieno volto. Preghiamo che continui a farlo a lungo. 

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