Spaccapietre, il monolite di crudezza, realismo e impegno civile dei fratelli De Serio sul caporalato

by Nicola Signorile

Uno sguardo duro, lucido su un mondo sommerso. Un mondo che parla la lingua della violenza, della sopraffazione, della disumanizzazione. Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio non lascia scampo. Mette di fronte allo spettatore una realtà costantemente ignorata dalla politica, dai media, dal cinema.

In mezzo a una cascata di drammi borghesi e commedie conciliatorie sfornate in serie dagli autori italiani, il film si staglia come un monolite di crudezza, realismo e impegno civile (sì, non è una parolaccia). Qualcosa di diverso nel panorama filmico nostrano che guarda al passato per narrare il peggio del presente, innestandosi nella grande tradizione del cinema sociale italiano più attento alle sorti degli ultimi, dei disperati, degli schiavi dei nostri anni, senza cercare una via consolatoria, pietistica o battere la strada, che troppi piedi hanno già calpestato, del melodramma.

In una Puglia arida sospesa tra passato e presente (il film è girato tra Bari, Spinazzola e Pulsano), i De Serio raccontano il percorso doloroso di un padre, Giuseppe (Salvatore Esposito) e di un figlio, il piccolo Antò, (Samuele Carrino) uniti da un infinito dolore. In breve, ritraggono un quadro famigliare amorevole, in cui è Angela (Antonella Carone), la madre, a dover uscire in piena notte per andare a guadagnarsi la giornata sui campi di pomodori, dopo il brutto infortunio all’occhio che non permette più a Giuseppe di svolgere il suo lavoro di spaccapietre in una cava.

L’opera, unica italiana nelle Giornate degli Autori della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, ha radici profonde, nella storia della famiglia dei due autori torinesi – un nonno spaccapietre e una nonna morta nei campi pugliesi nel 1958 – e nella recente cronaca: a ispirarli è stata la scomparsa di Paola Clemente, la bracciante 49enne di San Giorgio Jonico deceduta in un vigneto di Andria nel 2015, un caso che ha scoperchiato l’orrore della moderna schiavitù. Il mondo del caporalato lo hanno raccontato inchieste e reportage, tra gli altri del compianto giornalista e scrittore tarantino Alessandro Leogrande, citato più volte dai registi come fonte. La finzione incontra la realtà in un viaggio nelle contraddizioni di una terra, inscritta nel Dna dei De Serio che, prima di raccontare, hanno esplorato, intervistato, incontrato i protagonisti reali di questa realtà.

Approccio documentaristico alla Ken Loach per due artisti (noti anche per le opere di video arte e per i corti premiatissimi nel mondo) che avevano sorpreso nel 2011 con l’opera prima Sette opere di misericordia e nel 2015 erano al Lido con il loro documentario I ricordi del fiume.

La morte di Angela sui campi è annunciata da una telefonata anonima: nel corpo di quella donna accasciata al suolo stremata dalla fatica, rivive, nella parziale indifferenza generale, la storia di Paola Clemente e quella, risalente a un’epoca lontana ma evidentemente non troppo, della nonna dei registi.

Giuseppe e Antò restano soli, disperati, senza casa e senza un soldo. Il bambino non vuole rassegnarsi alla morte della madre, una promessa impossibile di rivedere Angela li lega ancora più indissolubilmente. Innesca il cammino dei due che ripercorrono i luoghi dove la donna ha lavorato come bracciante a chiamata fino alla morte. Il lento incedere della prima parte del film rispecchia quello del giovane papà incarnato da Salvatore Esposito, spaccapietre per una tradizione famigliare che non vuole interrompere e che, anzi, celebra con orgoglio. Portatore di una dignità del lavoro, per quanto umile esso sia, che è tratto caratteristico di tanti uomini e donne dei Sud del mondo relegati a una condizione di marginalità, condannati a una vita di fatica e obbedienza.

Gli autori si prendono il tempo di costruire un rapporto padre-figlio sempre più profondo, tenero, di condivisione totale, anche dei momenti più duri dell’esistenza. La promessa di restituire la figura materna ad Antò dona un senso alto, trascendente, alla discesa agli inferi dei protagonisti; Giuseppe è un novello Orfeo, la cicatrice sull’occhio il segno di un superpotere agli occhi di suo figlio, mentre vediamo Esposito sottomettersi, rassegnato, incerto. Il corpo mastodontico di Esposito martoriato, vinto dalla fatica e dalle umiliazioni è il fulcro di Spaccapietre, la macchina da presa gli sta addosso, spesso riprendendo le spalle gigantesche su cui l’attore sembra reggere un mondo intero. Il volto segnato e sofferente è capace di aprirsi all’amore e all’umanità nei momenti in cui si prende cura del figlio, pennellate di tenerezza nel bel mezzo dell’inferno che lasciano il segno.

Un passo avanti per un attore che sta cercando la sua strada; i panni del Genny Savastano di Gomorra La Serie sono ingombranti, ma la volontà di non restare ingabbiato c’è (presto lo vedremo nella quarta stagione della serie Usa, Fargo).

L’immersione nella miseria dello sfruttamento dei braccianti è totale, non si addolcisce la pillola allo spettatore. Senza retorica, vediamo la coppia muovere i primi passi in una lercia baracca che diventerà la loro nuova dimora. La luce abbagliante delle giornate nei campi si alterna alle notti nella baraccopoli, quando, stremati, i lavoratori ritrovano piccoli scampoli di umanità, come una birra e una sigaretta condivisa con gli sfortunati vicini. Notti in cui Giuseppe e Antò nella baracca che gli è toccata in sorte costruiscono la propria enclave fatta di affetto, di cure reciproche, di mutuo sostegno. Dentro, l’amore; fuori, l’orrore.

I ritmi di lavoro sono estenuanti, acqua e cibo vengono detratti dalla paga giornaliera dallo spietato caporale (Giuseppe Loconsole). Esseri umani come bestie da soma, spronati ad andare più veloce, senza un attimo per tirare il fiato. Ogni tanto, qualcuno ci lascia la pelle. Ma per i responsabili del campo, indifferenti alle sorti dell’umanità che scorre sotto i loro occhi, è solo un altro “buco da coprire” e una telefonata anonima a un parente da fare. Nel ghetto l’unica legge vigente è quella dettata da un capo sottilmente crudele, interpretato da un ottimo Vito Signorile, un moderno negriero che fa la bella vita a due passi dai luoghi in cui altri uomini e donne vengono umiliati e tormentati dai suoi sgherri. Una delle sue vittime preferite è Rosa, una bracciante amica della defunta moglie di Giuseppe, incarnata in modo sensibile da Licia Lanera, al debutto sul grande schermo. Facciamo la sua conoscenza in una scena molto potente, garroniana – di mezzo c’è il corpo di un cinghiale – che palesa plasticamente la tortura psicologica a cui è sottoposta e la sottomissione della donna allo schiavista. Lo sguardo degli autori si concentra sul trio di italiani (per fortuna senza virare verso improbabili derive romantiche o mèlo), per i quali il ghetto è il punto più basso dell’esistenza; per altri – le tante figure sfocate di immigrati che restano sullo sfondo – la terribile via d’accesso a un nuovo continente e a una nuova vita.

Giuseppe cercherà di mettere Rosa al riparo dalle attenzioni del padrone. Una scintilla che può tramutare la paura in rabbia, la rassegnazione in furia vendicatrice. Il cast di contorno per una volta sembra persino prevalere sul protagonista, grazie a prove notevoli dei già citati Carone, Loconsole, Signorile e Lanera. Ma soprattutto in virtù della performance del piccolo Samuele Carrino che conferma doti da attore consumato. Il suo sguardo illumina il film. Antò è la prima vittima di una condizione che vive sulla propria pelle, accanto al padre-gigante. Ma nonostante gli stenti e le privazioni, crede alla promessa di riabbracciare la madre, sogna di diventare archeologo. Nei suoi occhi e nei suoi gesti d’amore filiale c’è la scintilla di speranza, e di vita. È lui il gigante di Spaccapietre.

Chiarezza d’intenti e nitore delle immagini fanno bene a una pellicola che non sacrifica l’estetica al messaggio, aprendo uno squarcio su una realtà negata in modo partecipato, empatico. Sostenuta da un’autentica urgenza espressiva, chiama in causa le coscienze degli spettatori con le armi della settima arte. Un cinema umanista che denuncia e riflette senza annoiare, né trasformarsi in rabbioso pamphlet. Qualche perplessità la destano la fotografia di Antoine Héberlé e una sceneggiatura, scritta dagli stessi De Serio, che, dopo la compassata parte iniziale, all’arrivo nella baraccopoli, accelera troppo, non prendendosi il giusto tempo per lo sviluppo di situazioni e rapporti tra i personaggi.

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