The Commitments, il viaggio inaspettato nei sobborghi di una Dublino quasi monocromatica di Alan Parker

by Giuseppe Procino

La periferia di Dublino dei primi anni novanta non ha vie di fuga. È una sorta di ciclo perenne in cui i destini sono già scritti da una società che non concede diritti o privilegi. È una periferia che somiglia alla provincia di qualsiasi paese e in cui il sogno effimero e ambivalente dell’emancipazione dovuta al boom industriale ha mostrato già il suo vero volto.

Tra le fila di un ufficio di collocamento o di una banca, in attesa del sussidio di disoccupazione, si muovono i musicisti, personaggi che non si accontentano di un lavoro qualsiasi, alternando a una routine umiliante il diritto di coltivare nel piccolo le proprie ambizioni.

Il problema è che negli anni ottanta ci sono stati gli U2 e quindi la prova concreta che c’è dell’altro al di fuori del proprio deprimente orticello fatto di certezze standardizzate. “Meglio essere musicisti disoccupati che idraulici disoccupati” o disoccupati e basta, perché così, almeno, quell’ambizione, quella possibilità nascosta in fondo al sogno, sono movente e visione da rendere concreti. Lo sa bene Jim Rabbitte che vorrebbe diventare un importante manager musicale e, nell’attesa che le cose accadano, immagina interviste, quasi come se stesse creando la sceneggiatura del proprio destino. Non è la rabbia a dargli forza ma l’idea che possa accadere davvero qualcosa. L’occasione si presenta quando Derek e Outspan, rispettivamente un bassista e un chitarrista, decidono di interpellarlo per metter su una band.

La cosa parte come un gioco, ma un gioco da adulti. «Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!”» con questa surreale quanto onesta presa di posizione, egli cerca di formare una band soul, una band proletaria, dalla parte degli ultimi, contro il razzismo e la discriminazione. Per farlo si affida a un annuncio su un giornale ma anche al proprio intuito pescando talenti nascosti tra le proprie conoscenze. La band si trasformerà nel luogo ideale in cui giovani e meno giovani costretti dalla vita a lavori umili ed estenuanti trasformeranno le proprie delusioni in pura energia. Il sound si rivelerà stupefacente, ma con l’arrivo delle prime conferme, anche gli attriti personali e le problematiche relazionali prima sopite si trasformeranno in difficoltà insormontabili. Ad un passo dal grande salto, il gruppo si sfalderà.

Viaggio inaspettato nei sobborghi di una Dublino quasi monocromatica ma colorata dall’umanità vibrante che popola le strade, i mercati e i luoghi d’incontro, “The Commitments” ha il potere di coinvolgere emotivamente lo spettatore sino a fargli venire voglia di imbracciare uno strumento, di far parte di qualcosa. Pochi film sulla genesi di una band hanno avuto questa capacità. Tra ritratti sui generis di un bestiario metropolitano vario e per nulla omogeneo ne viene fuori una diapositiva di un periodo storico preciso, lontana dalla periferia scozzese del “Trainspotting” di Boyle, periferia nella quale, benché figlia delle stesse motivazioni, mancano modelli positivi e speranze.

La musica per Alan Parker diventa un’arma contro un determinismo classista, una via di fuga in grado di mettere tra le mani un’arma in grado di sparare contro un futuro già prestabilito. È una pellicola che, seppur in posizione diametralmente opposta, contiene gli stessi spunti di riflessione di “Fame”, che lo stesso Parker aveva girato un decennio prima, in cui persiste la funzione salvifica dell’arte, il suo potere di far desiderare e spesso generare altro. Se in “Fame” però il tutto si risolve con una domanda sul futuro, in “The Commitments” abbiamo una risposta precisa: il fallimento, frutto però solo ed esclusivamente dell’incapacità di gestire le proprie emozioni e della mancanza di uno spirito di adattamento. Il fallimento però non è importante, perché qualcosa nel frattempo è cambiata. La musica per i protagonisti è, così, alternativa, allargamento delle prospettive. È questo l’elemento fondamentale: l’esercizio dell’immaginazione che può far accadere cose, esattamente come accade a Joey, trombettista mitomane che riesce quasi a far duettare la propria band con il leggendario Wilson Pickett. Con “Fame”, “The Commitments” ha in comune anche la scelta del cast, quasi del tutto sconosciuto e selezionato sulla base di attitudini e conoscenze musicali.

Partendo da un romanzo di Roddy Doyle, che firma anche la sceneggiatura, Alan Parker gira nel 1991 una delle sue opere più importanti, una commedia musicale che ha tantissimi pregi, pochi difetti e la corona di cult assoluto. È un’opera che è stata in grado di scrivere una pagina importante del cinema europeo degli anni novanta, in primis per la colonna sonora che fonde soul e rock anni settanta, ribadendo il concetto che quello che noi ascoltiamo è figlio indiretto delle grandi lotte per la libertà. D’altronde per Alan Parker la musica non è mai stato un elemento casuale all’interno della propria filmografia. Anche quando il tema non è esplicitato, anche quando si parla dichiaratamente di altro, la musica cerca sempre di essere protagonista. Basti pensare al tema di “Fuga di Mezzanotte” scritto da Giorgio Moroder e che vive ormai di vita propria.

Ma l’elemento più importante di “The Commitments” è la sceneggiatura, ironica, pungente, in grado di raccontare una versione del reale in maniera intelligentissima. È una delle pellicole che ha riscritto lo stile della commedia british degli anni novanta e da cui pochi anni dopo attingeranno i vari “Quattro matrimoni e un funerale” o “East is east”.

Inserito nel 1999, tra i “100 migliori film britannici del secolo” dal British Film Institute, potrete vederlo o rivedrlo su Amazon Prime Video.

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