The Irishman: la monumentale opera di Martin Scorsese

by Nicola Signorile

Questo, sì, che è un paese per vecchi. Malinconia e risate, amarezza e sgomento, violenza e rimorso. C’è tutto quello che si cerca in un film in The Irishman, ultima monumentale opera di Martin Scorsese.

Un film che è un commiato al suo mondo, a Robert De Niro, Joe Pesci e Harvey Keitel, gli amici attori che ha rivoluto insieme in un suo film; ad  un modo di fare cinema che ha rivoluzionato Hollywood, celebrato paradossalmente proprio sotto l’egida di Netflix, emblema di modernità e (forse) del tramonto delle sale.

Non ha voluto giovani attori per interpretare i personaggi di questo imperdibile compendio del suo cinema, ha preferito attendere che le tecniche di morphing in Cgi fossero all’altezza del compito: ringiovanire le fattezze di maschere insostituibili. La collaborazione con Netflix infatti non è l’unica prima volta per Scorsese: The Irishman segna la prima collaborazione tra il regista e un altro mostro sacro della New Hollywood, Al Pacino, al quale affida il personaggio istrionico del potentissimo capo del sindacato dei trasportatori Jimmy Hoffa, che “negli anni 50 era più famoso di Elvis e negli anni ’60 dei Beatles”.  È tratto dal libro L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa (I Heard You Paint Houses) scritto nel 2004 dall’ex procuratore Charles Brandt, biografia romanzata di Frank Sheeran, uno dei pochi non italiani annoverato tra i maggiori esponenti della Cosa Nostra statunitense. Prima di morire volle confessare i suoi crimini e in anni di interviste rivelò al procuratore Brandt decine di omicidi in cui era coinvolto, compreso quello del noto sindacalista, uno dei grandi misteri della storia americana.

Insieme, sul grande schermo, Al Pacino, Bob De Niro e Joe Pesci non si erano mai visti: il risultato è destinato a restare a lungo nella memoria. Il film è il più lungo della carriera del regista di Goodfellas e The Departed (escludendo i documentari): ben 210 minuti di epopea gangster che, prendendosi i suoi tempi, abbandona la frenesia dei tempi degli Henry Hill e degli Asso Rothstein.  I movimenti di macchina sono ampi e di estrema eleganza, ma Scorsese stavolta tiene a freno il ritmo che è più disteso, meno infernale rispetto ai suoi precedenti mafia movies (o al più recente The wolf of Wall Street), è più interessato a far emergere le relazioni intime tra i personaggi. Non è più tempo per gli scatti d’ira, per le impennate improvvise al ritmo di musica. Qui a scandire quasi integralmente il racconto ci sono il tema originale di Robbie Robertson e un pezzo doo-wop degli anni ’50, In the still of night dei Five Satins, anche se nella crepuscolare parte finale e nella implacabile sequenza dell’esecuzione di Hoffa, la scelta è lasciar andare le immagini quasi senza commento musicale.

 L’irlandese del titolo è Frank Sheeran (De Niro). Frank è tante cose: un  camionista, un veterano della Seconda Guerra Mondiale, è lì che ha imparato a usare le armi; un glaciale sicario al soldo della mafia; quello che si direbbe un fixer, una sorta di signor Wolf capace di mediare e risolvere problemi per il suo mentore Russ Bufalino (Pesci), il boss di Filadelfia (Philly per chi ci vive); un irlandese tra gli italiani, com’era lo stesso De Niro/Jimmy Conway in Quei bravi ragazzi. Russ intravede subito in Frank i tratti dell’uomo di buon senso, in grado di gestire situazioni complicate e di cavarsela sempre, che ci sia da intimidire un’impresa che non sta al gioco o da convincere qualcuno a fare qualcosa. Russ si fida di Frank. Lo presenta a Jimmy Hoffa, figura prepotente incarnata in un Pacino straripante che domina la seconda ora del film. Presto ne diventa il più fidato consigliere, un amico, per quanto si possa esserlo quando di mezzo ci sono gli “affari”.

Il magnetico sindacalista è l’unico che riesce a scalfire il muro che separa Frank dalla figlia Peggy (da adulta interpretata da Anna Paquin), unico sguardo femminile di disapprovazione nella vita del sicario. Le vicende di questi personaggi si intrecciano con i principali avvenimenti della storia americana degli anni 60 e 70, visti con gli occhi di Cosa Nostra: l’elezione sostenuta dalla mafia di John Kennedy l’ingrato che poi perseguirà la mafia attraverso il fratello Bobby, nominato Procuratore Generale; Castro e il disastro della baia dei porci, col tentativo di riprendersi l’isola e i suoi casinò con l’aiuto della Cia, Nixon e il Watergate.

Se hanno ucciso un presidente, possono uccidere anche un sindacalista”, dirà Russ al suo prediletto, lasciando intravedere per la prima volta un triste epilogo per il terzetto. Hoffa era diventato un personaggio scomodo,  il suo corpo fu visto l’ultima volta il 30 luglio 1975.

Ritroviamo al cinema dopo tanto tempo un Joe Pesci molto diverso da come lo ricordavamo. Lavora di sottrazione per dar corpo a un personaggio sornione: il suo Russ è quello al quale “tutti danno retta”, che ha le mani in pasta dappertutto, che può chiederti il peggiore dei sacrifici con il disincanto impresso nel suo mantra: “It is what it is“. Va fatto ciò che va fatto, le cose non possono andare in maniera diversa, anche se vuol dire tradire un amico in nome delle logiche mafiose, alle quali Frank non si sottrarrà neanche quando sarà solo un anziano su una sedia a rotelle in una casa di riposo.

Ed è un lungo piano sequenza nel corridoio dell’ospizio in cui è rinchiuso ad aprire The Irishman, mostrando allo spettatore per la prima volta un vecchio, canuto, De Niro in carrozzella, la cui voce fuoricampo ripercorrerà l’esistenza di Frank in un lungo flashback. La sceneggiatura è corposa, costellata di dialoghi da antologia, come l’irresistibile conversazione in italiano tra Russ e Frank, in cui il giovane camionista rivela di aver imparato la lingua durante la Seconda Guerra Mondiale nelle trincee di Anzio e Salerno o le battute sugli italomericani di Hoffa, “Tony, ma quale Tony, perché si chiamano tutti Tony?”.

Per adattare il libro di Brandt, Scorsese ha scelto, come aveva già fatto per Gangs of New York, il premio Oscar Steven Zaillian, autore dello script di Schindler’s List, nominato anche per Risvegli e L’arte di vincere. L’impeccabile fotografia di Rodrigo Prieto è uno dei tanti motivi per vedere The Irishman al cinema, possibilmente in lingua originale. Per godere di un Robert De Niro tornato, finalmente, a livelli maiuscoli di recitazione; ci voleva Scorsese e il suo famigliare mondo antico per riportarlo ai suoi fasti, dopo anni di commediacce e cattivi dal grugno sempre uguale. Il 76enne attore newyorchese gestisce al meglio anche il tramonto di Frank e del suo mondo che va scomparendo. Keitel dà solo un piccolo assaggio della proverbiale presenza scenica. Del cast fanno parte anche gli ottimi Bobby Cannavale e Stephen Graham, che con Martin Scorsese hanno già lavorato nella magnifica serie Boardwalk Empire, rispettivamente nei ruoli di Gyp Rosetti e Al Capone. Cannavale fu protagonista poi, nel 2016, di Vinyl, la serie Hbo sul rock anni ’70 ideata da Mick Jagger e dallo stesso regista, cancellata dopo solo una stagione per i costi esorbitanti e gli ascolti non esaltanti.

Come sempre nel cinema di Scorsese non c’è giudizio nei confronti dei personaggi: al cineasta di origine siciliana interessa da sempre indagare l’essere umano, riflettere sul passare del tempo che non sempre lenisce le ferite, parlare di colpa e redenzione. In un interessante dialogo tra giganti, il cinema di Clint Eastwood sembra irrompere nelle sequenze finali di The Irishman, malinconiche, senili. Il tempo è passato, “non ti rendi conto di quanto scorre veloce finché non ci arrivi”, ammette Frank alla giovane infermiera che si prende cura di lui, ignara di chi sia stato Jimmy Hoffa. Non importa: tutto è passato, restano solo i (tanti) fantasmi con cui si è costretti a convivere fino alla fine e una figlia che non vuole più saperne di te. Dopo la purtroppo breve parentesi in sala, il film sarà su Netflix dal 27 novembre.

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