Totò che visse due volte, un film originalissimo e imperfettamente anarcoide

by Giuseppe Procino

Totò che visse due volte, l’ultimo film italiano ad aver subito la scure della censura nel 1998, torna alla luce grazie alla Cineteca di Bologna, responsabile del restauro in 4k basato sul recupero dei negativi e del suono originali.

Tre episodi dalla filigrana biblica e tre personaggi per raccontare l’assenza di Dio e la perdita di punti di riferimento per un’umanità allo sbando: Paletta che si mette nei guai per trovare i soldi necessari per poter andare con una rinomatissima e prosperosa prostituta (in realtà interpretata da un uomo), Fefè che finge di amare Pitrinu omosessuale di mezza età ma che in realtà è solo interessato alle ricchezze di quest’ultimo, Totò, moderno Gesù Cristo in opposizione al boss mafioso Totò, in una rilettura originalissima e blasfema della passione.

Secondo lungometraggio della coppia di Ciprì e Maresco, enfants terribles di Cinico Tv, Totò che visse due volte rappresenta un’opera autoriale nichilista, una riflessione cattivissima e grottesca su un’umanità che regredisce ad uno stato quasi bestiale.  Un film che si è rivelato a tratti casualmente profetico ed anarchico in cui convivono varie anime e riferimenti: critica alla società patriarcale, attacco spietato alla religione cattolica, perdita di riferimento esistenziale per l’essere umano.

Totò vuol essere un film shockante per un pubblico italiano non avvezzo a turpiloqui, fluidi corporei, zoofilia, blasfemia. Appellandosi al sacrosanto diritto della libertà di espressione ma anche alla prerogativa del rendere luminoso lo schifo e affascinante la merda, Ciprì e Maresco creano un affresco di un’umanità avvilita ed avvilente, un inno all’estetica del disgusto. Ci riescono attraverso un bianco e nero ruvido e meravigliosamente fotografato da Luca Bigazzi (che ne ha anche supervisionato il restauro), netta suddivisione simbolica tra luce ed ombra, bene e male, sacro e profano, che si confondono inevitabilmente nei grigi di una Palermo post apocalittica, già visitata in Cinico Tv, in cui l’umanità ha poco in cui sperare.

La violenza, ridicolizzata ai limiti della slap-stick comedy, e i continui riferimenti ad una pulsione sessuale che non trova concreta risoluzione se non in un estremismo bestiale e nel perenne e schizofrenico onanismo, completano il quadro narrativo ed estetico della pellicola, permeando il tutto con un effetto di straniamento, chiaro riferimento al primo cinema di Bunuel.

Tutto è recitato in un siciliano strettissimo ed incomprensibile, sintomo quasi di un ritorno ad una lingua primordiale, da un catalogo di Freak in cui non vi è presenza di esseri femminili, una scelta, questa, che lo avvicina al pasoliniano Salò.

Si tratta di un film che nella tecnica narrativa, e quindi anche registica, ha fatto scuola non solo nel nostro paese, ma anche all’estero, dove vanta la fama di film imprescindibile e che raffina lo stile già sperimentato dal duo siciliano con Lo zio di Brooklyin e che verrà resa più morbida e digeribile successivamente con il ritorno di Cagliostro.

Totò che visse due volte conferma l’identità e la riconoscibilità della firma del duo lanciato da Enrico Ghezzi. Si creava così un genere che avrebbe partorito, forse involontariamente, esempi più significativi, soprattutto oltralpe, come il cinema feroce di Benoît Delépine e Gustave Kervern.

Se l’estetica si rivela ammaliante, purtroppo il retrogusto di cinismo morale che permea l’intera durata della pellicola risulta poco incisivo. La fusione di elementi surrealisti, simbolismo e ricerca escatologica risulta confusionaria nella narrazione e l’intento  provocatorio rischia di trasformarsi in una snervante passerella di situazioni sui generis in cui si fatica a trovare le connessioni.

È quindi profondamente esagerato parlare di Totò che visse due volte come di un’opera totalmente riuscita negli intenti o di un capolavoro: è un lungometraggio imperfettamente anarcoide, trasformato in “storia del cinema” proprio attraverso il sentito dire e il clamore (la censura non gli perdonò gli estremismi ed i turpiloqui religiosi), un’operazione divenuta cult per aver sdoganato sul grande schermo un impietoso grottesco narrativo e per aver creato un gigantesco clamore mediatico.

Non mancano però momenti riuscitissimi e da antologia, come il primo incontro tra Fefe e Pitrinu o l’omaggio alla leonardesca “l’ultima cena” assiema allo stupro di una statua della madonna nell’episodio conclusivo.

Al di là della confusa pretesa di avere una chiave di lettura morale ma non moralista, va riconosciuta un’indubbia e spietata originalità che portò comunque una ventata di novità nel nostro cinema.

Presentato a Venezia, dove non fu accolto con molti plausi, suscitando reazioni nei due registi ed in concorso al quarantottesimo Festival di Berlino, Totò che visse due volte è una pellicola da rivedere o da riscoprire anche solo per capire quanto di esagerato e inutilmente esasperato ci fosse dietro il perbenismo moralista della censura: la reliquia di una meccanica culturale contaminata che ha dominato da sempre la storia del nostro cinema e della distribuzione a cui Ciprì e Maresco donato il colpo di grazia.

Giuseppe Procino

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