“Tutto il mio folle amore”, la comprensione dell’altro e l’autismo nel film di Gabriele Salvatores

by Nicola Signorile

Che cosa unisce Domenico Modugno, Pierpaolo Pasolini, Fulvio Ervas e Gabriele Salvatores? La risposta è in una frase: Tutto il mio folle amore è il titolo dell’ultimo film del regista di Mediterraneo, liberamente ispirato a Se ti abbraccio non aver paura, romanzo di successo del 2012 di Ervas. Ma è anche il celebre verso della canzone di Modugno Cosa sono le nuvole, a sua volta titolo dell’episodio del film Capriccio all’italiana diretto da Pier Paolo Pasolini (che ben poco c’entra con la pellicola in questione).  

Un ritorno a territori familiari per Salvatores.  Al road movie che tanta fortuna portò al suo cinema negli anni ’90, al viaggio come esperienza di formazione, di crescita, di conoscenza, di fuga (Marrakech Express, Turnè, Mediterraneo e Puerto Escondido); agli spazi sconfinati dei suoi lavori più riusciti, che siano i campi del Tavoliere di Io non ho paura o le steppe siberiane di Educazione siberiana; al suo attore feticcio, Diego Abantatuono, assente dal suo cinema da ben dieci anni, dall’interessante ma poco fortunato Happy family.

 Il sedicenne Vincent viva a Trieste con sua madre Elena (Valeria Golino) e il padre adottivo Mario (Abatantuono), che ha imparato a stargli vicino e ad amarlo. Vincent ha un disturbo dello spettro autistico, mai nominato nel film; alterna momenti di stasi ad altri di iperattività, sbalzi di umore continui che i genitori tentano di arginare e incanalare in una normale vita borghese. La sua vitalità è incontenibile, trascinante.

Willy (Claudio Santamaria), invece, è il “Modugno della Dalmazia”, una celebrità negli sperduti paesini al confine con l’Italia, cantante da balera e da matrimoni, seduttore di insoddisfatte mogli balcaniche e imitatore impareggiabile del Mimì nazionale. Lui è il vero padre di Vincent: ha abbandonato Elena sedici anni prima, quando ha saputo della gravidanza. Non lo ha mai conosciuto, né sa del suo disturbo. Di soppiatto rientra nella vita del ragazzo, così come di soppiatto Vincent irrompe nella sua. Il sedicenne cerca una via d’uscita dalla routinaria esistenza, tra una seduta di ippoterapia e l’altra, che Elena e Mario possono assicurargli. Cerca un’avventura, insomma. E quale miglior modo di viverla che infilarsi nelle peregrinazioni gitane del genitore appena conosciuto?

Un intoppo nella monotonia quotidiana che sembra messo lì apposta dal destino, una deviazione dalla via maestra che porta sia Elena e Mario che Willy fuori dalla propria comfort zone, trascinati di peso a fare i conti con se stessi dalla forza di Vincent, dai suoi entusiasmi,  dall’imprevedibilità dei suoi slanci.

Tutto l’impianto di una commedia on the road piuttosto classica è incentrato su Vincent, e il film crollerebbe se non fosse sorretto dalla credibile performance dell’esordiente Giulio Pranno, in un ruolo che avrebbe potuto facilmente scadere nel patetico. Invece il giovane attore è una vera sorpresa. Salvatores si lascia guidare dalla sua fisicità, dalla sua mimica efficace, lasciando a briglia sciolta la coppia Santamaria-Pranno, protagonisti dei migliori momenti di Tutto il mio folle amore. Un rapporto che si costruisce farraginosamente, tra scatti, brusche chiusure e aperture gioiose. Un padre in fieri, eterno bambino, un figlio troppo sensibile con il quale è difficile stabilire un autentico contatto.

 Per personaggi e trama, il film potrebbe far pensare a Le chiavi di casa di Gianni Amelio, ma le due opere sono differenti come differenti, nel profondo, sono i loro autori. L’intento non è raccontare l’autismo, ma piuttosto il processo che porta alla comprensione dell’altro, il percorso di conoscenza tra due persone unite all’inizio “soltanto” da legami di sangue. Ma anche proporre una riflessione sull’esser genitori, che mette in gioco anche il ruolo dell’inquieta mamma, interpretata con grazia da Valeria Golino. Il suo istinto di protezione è messo a dura prova dalla scelta di Vincent, alla ricerca di libertà e autoaffermazione.

Scopre, standogli lontano per la prima volta, un altro figlio, un individuo adulto con le sue aspirazioni e desideri. In qualche modo anche lei è “una strana” come Vincent e Willy, al contrario del marito Mario, che rappresenta in questo contesto un porto sicuro, un appiglio che sembra esser stato scelto per contrappasso: l’esatto opposto dell’instabile Willy. Tanto equilibrato e di buon senso da diventare noioso, se accanto non avesse “la nuotatrice indomita” Elena e non ricercasse nelle parole degli altri  – di lavoro fa l’editore e lo vediamo, continuamente insoddisfatto (“Ormai ti stanno tutti sul cazzo”, gli dice sua moglie) leggere pagine che non diventeranno mai libri –  un’originalità che non possiede.

Il viaggio attraverso Slovenia e Croazia diventa, come da tradizione, un’avventura epica, picaresca, con fughe libertarie a bordo di una motocicletta e virate western in groppa a un cavallo mentre, sullo sfondo, aleggia lo spirito di Emir Kusturica (specialmente nella sequenza del matrimonio). Salvatores si muove agevolmente tra campi lunghi e primi piani, tra i grandi spazi attraversati dalle due coppie e i momenti di confronto tra i quattro protagonisti del road movie.

Lo spunto arriva dalla realtà, dalla storia vera del viaggio di Franco Antonello  e di suo figlio autistico Andrea, un lungo coast to coast degli Stati Uniti in Harley Davidson e poi in auto, giù fino in Messico, Colombia e Brasile, raccontato da Fulvio Ervas nel romanzo Se ti abbraccio non aver paura (Marcos Y Marcos). La sceneggiatura, scritta dal regista con Umberto Contarello e Sara Mosetti, trasporta la vicenda nelle meno battute strade dei Balcani, donando inoltre spessore e un importante sviluppo anche al parallelo viaggio di Mario ed Elena, i quali a loro volta imparano a conoscersi nuovamente e a dirsi quello che forse non si erano mai detti.

La buona confezione non è mai mancata ai film di Gabriele Salvatores, circondato dalla squadra di abituali collaboratori – Italo Petriccione alla fotografia, Massimo Fiocchi al montaggio, Rita Rabassini alla scenografia e Patrizia Chericoni ai costumi – però qui il regista mostra un entusiasmo rinnovato, la gioia di tornare di nuovo in strada, dove a volte ha “bisogno di tornare”, come ha più volte dichiarato.

Grande importanza ha la trama sonora imbastita da Mauro Pagani, che ha lavorato molte volte con il regista milanese, a cominciare da quel Sogno di una notte d’estate nel 1981, nato come colonna sonora di un suo spettacolo teatrale. Belle e malinconiche le composizioni originali del polistrumentista ex Pfm, intense e godibili le reinterpretazioni di Santamaria dei pezzi di Modugno e della struggente ballata Vincent di Don McLean (“Ora capisco cosa cercavi di dirmi e quanto soffrivi sapendo di avere ragione. Ma avrei potuto dirti, Vincent, che questo mondo non è adatto a uno così bello come te”), che fa un po’ da filo conduttore del film, sulle canzoni non originali l’entusiasmo ha preso un po’ la mano con qualche scivolata fuori contesto (vedi Imagine Dragons).

Nota a margine per Claudio Santamaria. Aveva già mostrato apprezzabili doti vocali, dalla Bocca di Rosa, cantata insieme alla Pfm e a Stefano Accorsi sul palco di Sanremo nel 2009 al Rino Gaetano televisivo. Willy è uno dei migliori personaggi della sua carriera: l’attore dosa bene imbarazzo, fragilità, la cialtroneria tipica di chi vive la vita come una lunga zingarata e gli impeti fanciulleschi dell’eterno Peter Pan. Non gigioneggia, né scimmiotta precedenti illustri, come sarebbe stato facile fare.

Un’altra prova – speriamo che il cinema italiano gliene regali tante altre in futuro – della grande versatilità e umanità di un interprete in grado di attraversare generi e personaggi. In questo simile a Gabriele Salvatores che a 70 anni continua a cambiare. Non sta mai fermo, di pellicola in pellicola, con risultati non sempre felici, ma facendosi guidare sempre dalla sua indomita fame di cinema.

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