Why we hate. “L’odio nasce dal tribalismo”, a colloquio con Geeta Gandbhir, regista del doc con due nominations agli Emmy

by Claudia Pellicano

I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno, sostiene la psichiatria. Il male è, almeno potenzialmente, dentro ognuno di noi e il discrimine tra un criminale e una persona pacifica è dato unicamente dalle scelte che si compiono di volta in volta.

Questa, in breve, la premessa di Why we hate, il documentario prodotto da Alex Gibney e Steven Spielberg, insignito di due nominations agli Emmy e attualmente visibile su Dplay: https://it.dplay.com/nove/why-we-hate/

La serie indaga le radici dell’odio e gli strumenti che è possibile opporre al pregiudizio, alle divisioni e alla discriminazione. E demistifica alcuni luoghi comuni, tra cui quello che vorrebbe questo sentimento una prerogativa esclusivamente umana. La competizione, la scarsità di risorse o la semplice percezione di una minaccia possono instillare aggressività anche negli animali. L’odio è, in un certo senso, un corollario dell’evoluzione della specie, che viene plasmata dall’habitat in cui vive.
Why we hate, il documentario prodotto da Alex Gibney e Steven Spielberg.La differenza fondamentale è che la nostra specie è riuscita a sopravvivere e, in alcuni casi, a prevalere sulle altre perché capace di collaborare all’interno di un gruppo. Ma se sappiamo sia cooperare che essere ostili, cosa ci spinge in una direzione anziché in un’altra?

La questione è straordinariamente densa e affascinante. Natura e cultura presentano implicazioni enormi: l’odio spesso affonda le proprie radici nell’infanzia e nel modo in cui si è stati educati. Sembra che i bambini posseggano il criterio di giusto e sbagliato, una morale intrinseca che, a volte, si corrompe col raggiungimento dell’età adulta.

Il senso di giustizia è, però, del tutto relativo e può subentrare in seguito a un confronto: se crediamo di essere trattati ingiustamente, questo può far emergere odio e violenza. La psiche umana è complessa e la gamma di processi mentali che ne conseguono, vastissima. Gli antropologi spiegano l’odio come risposta a un’ingiustizia o a una minaccia, vera o presunta. Un uomo non corrisposto da una donna può vivere le proprie aspettative disattese come un affronto. Un bullo può essere genuinamente convinto di aver ragione. Il proprio, personalissimo, giudizio, accompagnato al privilegio, può alimentare fenomeni come razzismo e sessismo. E questo scenario oggi è reso particolarmente insidioso dalla rete, dove ogni ideologia malsana può trovare giustificazione.

Se nessuno è alieno da sentimenti d’odio, è altrettanto vero che un sentimento, da solo, non basta: occorre che la violenza venga legittimata da un’ideologia che funga da detonatore e tramuti un malessere individuale in fervore collettivo.

La via è quella della manipolazione: il demagogo individua un nemico e si offre come difensore del popolo da quel nemico che mina i valori e la sicurezza stessa a base della convivenza civile. La strategia è intercettare i timori della comunità e creare una minaccia esistenziale incombente.
Uno degli strumenti più efficaci della propaganda è la disumanizzazione dell’avversario. Il gruppo disumanizzato viene rappresentato come inferiore, pericoloso e sprovvisto delle qualità proprie di una società civile. La tesi dell’inferiorità razziale, ad esempio, ha giustificato schiavitù e genocidi.
La corteccia prefrontale, responsabile dei processi cognitivi, è letteralmente meno attiva, meno simpatizzante, quando ci relazioniamo a un gruppo che la paura instillata dalla propaganda e la nostra psiche hanno disumanizzato. La verità che le ideologie totalitarie vorrebbero neutralizzare è che il nemico sia, effettivamente, uguale a noi.

L’affiliazione tribale, che può prefigurarsi come adesione a un partito politico così come a un credo religioso, al contrario, porta a vedere chi non appartiene al gruppo come a un antagonista; condotta allo stremo, quest’adesione liquefà l’identità dell’individuo, che soccombe davanti al senso di protezione e alla cieca fedeltà verso la propria comunità. Studi di psicologia, come l’esperimento di Milgrim, rivelano che siamo disposti ad obbedire se riteniamo l’ordine proveniente da una fonte autorevole. La vocazione a un’acritica obbedienza è più forte di quanto immaginiamo e può anestetizzare la coscienza di individui generalmente miti e istruiti. La conseguenza è un’assoluta mancanza di obiettività, anche di fronte all’evidenza dei fatti e alle verità più scomode: il tribalismo dismette le ingiustizie subite dagli altri, ed evidenzia le proprie, in una sorta di vittimismo competitivo, che può portare perfino a ignorare le atrocità commesse dal proprio gruppo, come sottolinea la regista Geeta Gandbhir, autrice, assieme a Sam Pollard, di Why we hate: «Il nostro cervello funziona in base a un sistema di sopravvivenza che tende a categorizzare ogni cosa, per cui vediamo noi stessi e il gruppo a cui apparteniamo come “buoni” e chi è diverso da noi come una minaccia. Questa è, in sintesi, l’origine dell’odio, l’appartenenza o l’esclusione da un gruppo; la rabbia è un’emozione che si può provare verso qualunque cosa, che può essere provocata da un fattore esterno e che spesso cammina di pari passo con l’odio, ma l’odio, in un certo senso, è, almeno potenzialmente, un fattore innato, un lascito arcaico del modo in cui il cervello umano è strutturato. Nasce dal tribalismo e si manifesta in presenza di una minaccia, reale o immaginaria. Lo sport ne è un esempio: un tifoso difende la propria squadra a ogni costo. Succede che simpatizzanti di team avversari si picchino fino a uccidersi. È solo un gioco, ma fa venir fuori tutti quegli istinti relativi al gruppo».

Il dato estremamente interessante è che pochi sembrano ammantati di malafede. La maggior parte degli individui che abbraccia, ad esempio, l’estremismo, non presenta disturbi mentali e ritiene di essere nel giusto. Derubricare una qualunque forma di disparità morale a pazzia è sciocco e denota una miope condiscendenza.

Privilegio e autoreferenzialità possono far percepire il perseguimento di uguali diritti come un’ingiustizia?
«Assolutamente. Lo si vede, ad esempio, nel caso della supremazia bianca e del razzismo sistematico. Gli individui in posizioni di privilegio temono che quel privilegio venga loro portato via. Ma questo accade fin da bambini: non vogliamo che nessuno tocchi i nostri giocattoli. Abbiamo la nostra casa, le nostre comodità, il nostro stile di vita, e cambiare tutto questo e il modo in cui viviamo è molto complicato. Istintivamente non siamo portati a condividere, è qualcosa che dev’esserci insegnato sin da piccoli. La condivisione è vista come una minaccia: se tu prendi qualcosa, significa che io ne avrò di meno. Portato a livelli primordiali, evoca la paura della scarsità e della fame. Naturalmente il pensiero critico ci aiuta a riflettere e a fare delle scelte diverse. Molti non si sentono minacciati, si comportano in modo generoso, superano queste paure e imparano a condividere. Possediamo la straordinaria capacità di cooperare, grazie alla quale siamo stati in grado di costruire la società in cui viviamo».

La sfida, per la scienza, è individuare delle tecniche per la prevenzione dei conflitti e predisporre degli strumenti per vincere le suddivisioni tra “noi” e “loro”. Suddivisioni che possono essere superate in modo costruttivo, per mezzo di un bene comune e di obiettivi positivi sovraordinati. Secondo le neuroscienze la nostra mente, evolvendosi, è diventata plastica e può cambiare prospettiva.
Allora conoscere se stessi e i propri processi mentali è imprescindibile per comprendere e affrontare l’odio. L’apprendimento può avere un impatto formidabile: le tecniche di mindfulness, ad esempio, aiutano l’autocoscienza, sviluppano la compassione e ci permettono di prendere consapevolezza di tanti processi inconsci. Le storie di riabilitazione dimostrano che la deradicalizzazione è possibile- nella serie un’ex fanatica religiosa racconta di aver abbandonato le proprie convinzioni dopo che uno degli oggetti dei suoi attacchi le ha teso la mano e si è reso disponibile a parlare. A volte è sufficiente un gesto gentile, un approccio diverso, il semplice parlare con qualcuno.

Gandhir insiste sull’importanza dell’istruzione: «Credo che il pensiero critico possa essere la risposta, perché ci permette di riconoscere il nostro stesso “tribalismo” e i nostri pregiudizi. Inoltre, identificarsi con molti gruppi aiuta ad alleviare i problemi. I giovani, ad esempio, hanno un’identità più fluida, appartengono a svariate realtà e, in questo modo, sono più capaci di empatizzare».

L’educazione è fondamentale per relazionarsi col passato ed evitare che si ripeta. Se le divisioni sono fonte di odio, l’inclusione è la risposta. Spesso dietro la radicalizzazione c’è un trauma, un bisogno d’integrarsi, una crisi d’identità. Disponiamo degli strumenti per opporre una forte e coesa risposta sociale. E per non ridurre l’altro a un nemico da annientare.

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