Green Book, un invito all’amicizia senza barriere

by Giuseppe Procino
Green Book

America 1962, Tony “Lip” Vallelonga è un buttafuori del Copacabana, uno dei locali più in voga di New York.

Rimasto senza lavoro per due mesi, per via della ristrutturazione del locale, accetta di fare da autista a “Doctor” Don Shirley, virtuoso pianista jazz, per un tour nel sud degli Stati Uniti, la parte dello stato più “infettata” dal razzismo tanto che bisogna perennemente fare riferimento al Green Book, un libro su cui sono segnati tutti gli alberghi in cui si accettano gli afroamericani. Nonostante le titubanze iniziali tra il musicista e il buttafuori, italoamericano, nascerà una vera amicizia, fatta di scoperte, rispetto ed insegnamenti reciproci.

Una storia semplice e vera

Candidato a cinque premi Oscar tra cui miglior film e migliore attore protagonista, “Green Book” racconta una storia semplice ma vera, e proprio della verità fa il suo punto di forza. Partendo da una storia che sembrerebbe banale, il film di Peter Farrelly si dimostra un’esplosione di umanità, un invito all’amicizia senza barriere.

Peter Farrelly alla regia è spiazzante. Sì, spiazzante perché per la prima volta abbandona completamente suo fratello Bob e prende le distanze da quella monade che è il mondo dei fratelli Farrelly, fatto di freak, situazioni volgari, colori pastello e un universo ‘politicamente scorretto’. Con “Green Book” il regista si allontana per la prima volta dal genere trash demenziale e  dimostra alla schiera di intellettuali che per anni hanno bistrattato i suoi campioni di incassi (co-diretti con suo fratello Bob) di essere un regista “vero”. Eppure con questo film Farrelly mantiene una certa coerenza narrativa con il suo passato artistico.

Il ripudio del politically correct

Se riuscissimo a mettere da parte lo snobismo culturale e ad analizzare le opere dei fratelli Farrelly con uno sguardo più attento, ci accorgeremmo che dietro il loro ripudio del “politically correct”, si è sempre nascosta un’attenzione particolare verso gli ultimi, una sorta di poesia irriverente sul diverso. Dopotutto, cosa sono “Scemo e più scemo” e “Amore a prima svista” se non degli inviti ad andare oltre i pregiudizi, degli atti politici contro i luoghi comuni e le apparenze? Allora, anche Green Book potrebbe inserirsi alla perfezione nella filmografia del regista, anche se sono cambiati stile e registro.

A scrivere la sceneggiatura è lo stesso Farrelly assieme Nick Vallelonga, il figlio del vero Tony, protagonista del film. “Green Book” è scritto in modo efficace, fotografato con classe e interpretato magistralmente. Una commedia drammatica su un passato che non ci sembra così lontano. Viggo Mortensen e Mahershala Ali sono eccezionali, perfettamente miscelati, uno nella parte di un italoamericano che vorrebbe essere un duro, ma che in realtà ha una sensibilità fuori dal comune, l’altro nella parte di un afroamericano, che di afroamericano, a tratti, dimostra di avere solo la tonalità della pelle.

Un personaggio complesso

È così che Tony e Doc si completano laddove non ce lo si aspetterebbe. Il primo insegna al secondo cosa voglia dire sentirsi parte di una comunità, suonare il cool jazz per un pubblico non elitario, ripudiare quella borghesia bianca che va ad ascoltare la musica dei neri ma poi non è disposta a condividere con quegli stessi musicisti la sala di un ristorante. Il secondo, insegna al primo cosa sia la poesia e le buone maniere. Viggo Mortensen per la prima volta dimostra orgogliosamente la sua età e la cosa non ci dispiace, anzi. Con il suo accento italiano – non doppiato – ci convince, ci travolge ed è impossibile non volergli bene.

Mahershala Ali, invece, si scopre con lo scorrere del film: un personaggio complesso, con il dramma del non sentirsi accettato da niente e nessuno se non quando è dietro al suo pianoforte, sempre a patto di rispettare quelli che sono i gusti del suo pubblico.

Da vedere, possibilmente in lingua originale.

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