Guy, il mockumentary inedito di Alex Lutz

by Giuseppe Procino

Alex Lutz è un attore, comico e regista francese di 41 anni. Questa è una premessa necessaria per parlare al pubblico italiano di “Guy” la sua ultima fatica come regista e attore. Sì, perché il nuovo film di Lutz può spiazzare lo spettatore italiano che non conosce la star francese e questo, però, può essere un vantaggio. È un vantaggio perché “Guy” è un film che gioca con lo spettatore, vuole confonderlo, portarlo a chiedersi se quello che sta vedendo è reale oppure no.  Per chi  sa bene di chi si sta parlando il tranello sembra essere meno scontato, per chi invece non conosce l’attore quarantunenne, l’inganno può funzionare in maniera più naturale. Il primo termine di valutazione di una pellicola del genere, dunque, è il senso di confusione, il senso di straniamento, il ritrovarsi a credere sul serio all’esistenza di Guy Jamet, chanteur di varietà famosissimo negli anni sessanta che sta preparando il suo ritorno in grande.

L’inganno viene architettato ad opera d’arte, sin dalla scelta del genere. “Guy” è infatti un mockumentary, un falso documentario, in cui si alternano finte immagini di repertorio con immagini del presente in cui Lutz è truccato in maniera meticolosa ed eccellente. Dietro la “finta” macchina da presa, c’è Gauthier, che pur di conoscere suo padre (ignaro del legame genetico) decide di raccontare il ritorno sulle scene della star. Una scrittura perfettamente credibile e un’interpretazione equilibrata che non scade mai nella macchietta o nella risata scontata, completano gli ingredienti di questo “tranello”. Tutto in “Guy” è pensato per sembrare reale. Tutto in “Guy” è perfettamente architettato con intelligenza. A popolare il suo universo pochi personaggi, molti sui generis, ma mai maschere dell’eccesso: un clochard che urla in una lingua incomprensibile, una compagna che legge l’oroscopo del cane, un’ex moglie (sua vecchia partner artistica) che ha evidentemente esagerato con la chirurgia estetica. E poi i personaggi normali, quelli che rappresentano per il protagonista le occasioni mancate: un regista-figlio che ha quasi timore di smascherarsi e rovinare quel brandello di rapporto che la macchina da presa gli ha permesso di costruire e un figlio legittimato ma che vive il rapporto con suo padre come un obbligo.

Guy è un personaggio che vive in una sorta di mondo patinato e fluorescente, come lo erano le apparizioni televisive del suo passato, in cui lui ha l’enorme paura di riscoprirsi decaduto, passato. Per questo preferisce le feste private ai grossi palcoscenici, per questo ha di nuovo l’ansia da prestazione, perché quel mondo a cui apparteneva è visibilmente cambiato.

Quello che Lutz ci regala è un ritratto profondamente umano seppur con tratti realisticamente surreali, una parabola sul successo ma anche sul suo prezzo, con le conseguenti occasioni mancate, un personaggio malinconicamente fuori dalla realtà ma che ne subisce il colpo ogni volta che ci si scontra, una vita fatta di alti e finti alti, quasi comune, che deve fare i conti con il tempo passato e la solitudine.

Dopo pochissimi fotogrammi, cosa sia vero e cosa sia inventato in “Guy” non ci importa più: qualunque cosa stia accadendo, per lo spettatore diventa verità.

La pellicola di Lutz però non è solo questo, è anche una riflessione sulle immagini, un invito a vivere il presente qui e ora.

“Tutte le immagini sono destinate a scomparire, scompariranno tutte all’improvviso, come le milioni di immagini nelle teste dei nostri nonni e quelle dei nostri genitori… un giorno anche noi saremo immagini nelle teste dei nostri figli” dice il protagonista sul finale della pellicola, quasi a volerci suggerire il vero senso di questa storia: non possiamo trasmettere le immagini, ovvero i ricordi, ma solo quello che essi sono stati in grado di insegnarci. Forse la magia del cinema sta tutta lì: nell’inganno del poter creare immagini, del poterle preservare senza che esse svaniscano, nel farci credere che quello che stiamo vedendo è tutto assolutamente vero. Il cinema può permettersi il lusso di non insegnarci nulla oppure semplicemente di raccontarci una storia qualunque, perché una volta creato, il film resta lì e nessuno può più farlo svanire.

By Giuseppe Procino

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