Ava Gardner, fedele all’amore malgrado ogni fallimento

by Orio Caldiron

Sbarcata a Hollywood all’inizio degli anni quaranta da una piantagione di tabacco del North Carolina, prima che qualcuno si accorga di lei Ava Gardner – nata a Smithfield il 24 dicembre 1922 e morta a Londra il 25 gennaio 1990 – appare in minuscole particine di una ventina di film.

Non aveva fatto fatica a ottenere diciannovenne il suo primo contratto alla metro Goldwyn Mayer, dopo il provino di rito che era stato commentato: «Non sa recitare, non sa parlare, non si sa muovere. Sensazionale! Sensazionale!» Straordinariamente fotogenica, la sua bellezza bruna, magnetica, dallo sguardo intenso, si rivela soltanto con I gangsters (1946) di Robert Siodmak, il classico del noir tratto da un racconto di Hemingway, nel ruolo di Kitty Collins, la dark lady – infida, avida, sensuale – che canta con la voce roca “The More I Know of Love, The Less I Know”. Quando la vede appoggiata al pianoforte in abito nero attillato, il protagonista è perduto per sempre. «Sono veleno per me stessa e per tutti quelli che mi sono vicini», ammette Kitty prima della “Fine”.

Robert Siodmak, I gangsters (1946)

Il personaggio che Hollywood le cuce addosso è in realtà quello della succube, che fa strage di cuori ma non riesce a nascondere la masochistica predisposizione a mettersi nei guai. Pandora Reynolds, la femme fatale di Pandora (1951), il delirante melodramma di Albert Lewin, è fatale soprattutto a se stessa. La celebrazione del suo fascino carnale non esclude il sacrificio di sé in modo che il suo partner possa rivivere l’ossessivo rito d’amore e di morte da cui è perseguitato. L’enigmatica Maria Vargas di La contessa scalza (1954) anima un singolare ritratto di donna, «uno dei più belli che il cinema ci abbia offerto, essendo questa donna Ava Gardner la più bella attrice di Hollywood» (François Truffaut). Il regista Joseph L. Mankiewicz colloca la protagonista in ambienti e situazioni diverse, di fronte a personaggi contraddittori, per raccontare la trasformazione della ballerina in diva cinematografica, alla luce del raggio di luna che illumina il sogno delle ambizioni aristocratiche, mentre l’eros si rivela nella sua derisoria impotenza. Fino a che punto l’affermazione della libertà individuale si accorda con la ricerca della felicità? Nell’inquietudine di Victoria Jones, divisa tra mondo inglese e componente indiana, Sangue misto (1956) di George Cukor le offre finalmente l’occasione di una interpretazione matura, complessa, emozionante.

Se si legge l’autobiografia, scritta nel lungo soggiorno a Londra dove muore il 25 gennaio 1990, si resta colpiti dalla sua disarmante fragilità. Quella stessa che affiora negli anni degli amori tempestosi, esaltati tra un bacio e un cazzotto dalle cronache mondane di mezzo mondo. Ma quando mette in fila tutti gli uomini di Ava – da Mickey Rooney a Artie Shaw, da Frank Sinatra a Luis Miguel Dominguin, da Walter Chiari a George C. Scott – ricorda soprattutto il grande poeta inglese Robert Graves, l’amico di una vita che diceva di lei: «È selvaggia e ingenua / fedele all’amore / malgrado ogni fallimento».

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